La morte e la malattia nella cultura contemporanea, almeno per quanto riguarda il mondo occidentale, sono state relegate ai margini della nostra vita. Per quanto ovviamente continuino a far parte del nostro quotidiano, la spinta verso un mondo eternamente giovane è fortissima: lo vediamo nell’industria antiage, lo vediamo nelle pratiche di bio-hacking, e lo vediamo in quello che è a tutti gli effetti un vero e proprio culto del corpo.
Anche se il fashion e la moda hanno da un po’ di tempo reagito alla mentalità omologante che imperava nei decenni precedenti proponendo canoni e corpi “non-conformi”, ancora nel pensiero comune, nella pubblicità mainstream e in generale nella società vediamo spesso una non accettazione della malattia come fatto ineliminabile dalla vita, e ancora parlare, per esempio, di tumore in pubblico viene considerato un “fatto coraggioso”, perché nella maggior parte del tempo pensiamo la vita come un eterno presente in cui ognuno deve aspirare, come una sorta di dovere sociale, alla bellezza e alla salute.
La pandemia di Covid-19 ha incrinato, per un momento, questa illusione: anche se oggi siamo tornati a vivere le nostre normali esistenze, in quel momento è diventato chiaro, lampante, che come specie non possiamo controllare tutto. Esiste qualcosa che non riusciamo ancora a definire, a ingabbiare, e questo qualcosa bussa alla porta, e probabilmente diventerà sempre più pressante: come sappiamo, infatti, la scorsa pandemia potrebbe non essere l’ultima, e anzi, maggiore è la distruzione degli habitat ambientali, maggiore è il rischio di nuove epidemie. Non solo: è recente la notizia della prima comunità costretta a spostarsi a causa dell’innalzamento del livello del mare.
Abbiamo visto, in un altro articolo, come nel medioevo la risposta alle catastrofi fosse sostanzialmente di tipo religioso: l’idea di una punizione divina era funzionale alla regolazione della società e a un’epoca fortemente instabile. Ma forse è ancora più interessante, per noi contemporanei, vedere come si affrontavano questi fenomeni in un contesto maggiormente laico, spostandoci nell’antichità.
La tragedia, in questo caso, fu la peste di Atene, che ha coinvolto l’Attica durante la guerra del Peloponneso, e che ci viene raccontata da due autori, Lucrezio e Tucidide, con metodi e finalità differenti. Partiamo da Tucidide, che è stato testimone degli eventi e che sarà modello e fonte non solo di Lucrezio, ma di tutti gli autori che d’ora in poi parleranno di peste.
Ciò che differenzia Tucidide dai suoi predecessori, primo fra tutti l’illustre Erodoto, è il tentativo di porre le basi per quella che oggi chiameremmo una storiografia “scientifica”. Ciò non vuol dire che i suoi racconti siano sempre attendibili, ma la sua opera è molto più sorvegliata in questo senso, a partire dalla scelta dell’argomento: mentre Erodoto raccoglie storie ed eventi da quasi tutto il mondo allora conosciuto, e spaziando tra le epoche, in modo da creare una sorta di storia universale, Tucidide sceglie di concentrarsi sulla guerra del Peloponneso, un fatto contemporaneo, sulla cui veridicità può avere maggiore controllo.
Anche stilisticamente, Tucidide è ben diverso dall’altro grande storico di Atene: Erodoto aveva uno stile prettamente affabulatorio, volto a stupire e affascinare il suo uditorio, anche perché declamava in pubblico le sue opere; Tucidide invece è asciutto, preciso, e questo lo pone agli antipodi rispetto a un Erodoto, il cui “bello stile” è inscindibile da ciò che ci racconta, al punto che alcuni delle sue storie non sono affatto credibili, e valgono al più come esempi, o come simboli. In Tucidide, invece, l’avvenimento non è mai analizzato alla luce di un’idea metafisica, né è usato come esempio edificante, o con intenti manifestamente didattici o edificanti.
Io dirò di che genere essa sia stata, e mostrerò quei sintomi che uno potrà considerare e tenere presenti per riconoscere la malattia stessa, caso mai scoppiasse una seconda volta giacché io stesso ne fui affetto e vidi altri malati[1].
Non solo: Tucidide interpreta anche i fatti alla luce di una nuova razionalità (quella della sofistica, del rinnovamento ateniese del V secolo, ma di cui parleremo un’altra volta), mettendo in questione le opinioni e le credenze dei suoi contemporanei. Uno dei passi più esemplari è quello che segue:
E, come era naturale, in quella sventura si ricordarono anche di questo verso, che, secondo le parole dei più vecchi, era stato cantato una volta: «verrà la guerra dei Dori e la pestilenza con lei». In quell’occasione la gente era in preda alla discordia, perché si sosteneva che in quel verso non era stato detto dagli antichi «pestilenza», ma «fame»; pure, data la sventura in cui si trovavano, ovviamente vinse l’opinione di quelli che pensavano che era stato detto «pestilenza». Giacché gli uomini adattavano i ricordi ai mali sofferti[2].
Qui vediamo come la tradizionale idea che i mali e le calamità arrivino per punizione divina o per una profezia, venga messa in discussione e demistificata. Tra “pestilenza” e “fame” la gente, il popolo, è più propenso a scegliere la seconda interpretazione, perché adattavano la frase alla situazione che stavano vivendo. Il passato viene cambiato in funzione del presente. La profezia, infatti, ha la funzione di spiegare l’inspiegabile, e crederci diventa dunque un atto consolatorio: ci conforta nella credenza di un ordine superiore, con cui quindi possiamo misurarci, e che possiamo in qualche modo controllare. Ma in realtà la profezia nasce a posteriori, e diventa chiara solo col senno del poi.
Tucidide, invece, accetta che l’uomo non possa controllare in toto la realtà, e dunque opera una definizione dei limiti della conoscenza, e in questo mostra una modernità sorprendente. Se da un lato l’imponderabile diviene in Tucidide una forza quasi soprannaturale, in grado di determinare i fatti umani al di là della nostra volontà, dall’altro però diventa l’ammissione dei propri limiti di studioso, dell’impossibilità di dare sempre una spiegazione, e anzi, il dovere di scartare tutte le ipotesi facili e consolatorie, come le profezie o l’idea che la peste sia stata portata apposta dagli spartani.
Il fine di Tucidide, infatti, non è inserire l’evento all’interno di un ordine naturale, o trovare una spiegazione edificante, ma cercare di comprendere le concatenazioni tra gli eventi, i loro nessi: in questo caso, quale sia stato il ruolo della peste all’interno del conflitto, e quanto abbia pesato nella sconfitta ateniese, dato, anche, che ha portato alla morte di Pericle, il leader politico che ha plasmato Atene e la sua politica per più di trent’anni.
Molto diverso è invece il punto di vista dell’altro autore che, alcuni secoli dopo, ci racconta lo stesso evento: Lucrezio, che conclude il suo De rerum natura (La natura delle cose) proprio con la descrizione della peste. Per molti versi le due descrizioni si somigliano: entrambi si attardano a raccontare gli effetti della peste sul corpo, in descrizioni tremende, estremamente dettagliate; entrambi parlano della paura e della disgregazione sociale che questa comporta. Ma in Lucrezio la peste prende delle vie più particolari e misteriose.
Lucrezio infatti è un poeta, ma un poeta-filosofo. Un poeta che scrive della realtà per esporre la teoria di Epicuro, una dottrina di tipo materialistico, ma dalla spiccata valenza etica. Per Epicuro infatti il fine è il raggiungimento della serenità: la comprensione del mondo serve a trovare uno stato di pace, di armonia. Ci aspetteremmo dunque che Lucrezio ci descriva la realtà così come la vede Epicuro. E invece le cose sono leggermente diverse.
Come è stato ampiamente osservato, le esigenze poetiche di Lucrezio sembrano contrastare con il suo essere filosofo; in particolare, se per Epicuro l’essere umano deve raggiungere uno stato di tranquillità e serenità dell’animo, Lucrezio in molti passi è tutt’altro che pacato e sereno. Questo è uno dei casi più emblematici: quando Lucrezio si sofferma sulle sofferenze, sull’orrore che genera la peste, lo fa con versi estremamente macabri, truculenti, anche più di Tucidide, arrivando ad abbandonare la terza persona per rivolgersi direttamente al lettore.
Molti corpi, consumati dalla sete lungo le strade e stramazzati
vicino alle fontane, giacevano distesi per terra, con il respiro
soffocato dal piacere eccessivo che aveva provocato il gesto di bere.
E nei luoghi pubblici potevi vedere qua e là per la strada
una grande quantità di corpi semivivi con le membra disfatte:
morivano in mezzo agli stracci e in una sporcizia nauseante,
morivano luridi e sulle ossa avevano soltanto un velo di pelle
che ormai era quasi sepolta sotto il lerciume e le piaghe spaventose[3].
A differenza di Tucidide, che rifugge dal dare spiegazioni metafisiche agli eventi, per Lucrezio la peste è soprattutto un simbolo: rappresenta l’instabilità del mondo, la sua sofferenza, e anche l’insensatezza dell’attaccarsi alle cose terrene, in quanto effimere. Al contrario, distaccarsi da esse porta l’uomo a una vera serenità: il piacere per Epicuro, infatti, non è godimento fine a se stesso, ma godimento delle cose nell’immediatezza, con quel distacco che ci permette di apprezzarle senza esserne schiavi.
Lucrezio, tuttavia, mostrandoci le disgrazie del mondo, finisce – un po’ come è accaduto, mutatis mutandis, al Dante dell’Inferno – per esaltarle. In ogni punto in cui il nostro esprime la sua critica alla realtà, quasi a disprezzarla, si lancia in descrizioni così ricche di pathos che finiscono per farcela amare ancora di più, per interessarci ad essa. La poesia, in un certo senso, esonda rispetto la filosofia.
Eppure, non risulta tanto tremendo quanto Tucidide:
E il corpo, a toccarsi esteriormente, non era né troppo caldo né pallido, ma rossastro, livido, fiorito di piccole pustole e ulcere; le parti interne ardevano a tal punto da non poter sopportare il rivestimento di vesti leggere o di lini, né altro che non fosse l’andar nudi, e il gettarsi con gran piacere nell’acqua fredda. E molte persone non curate facevano questo, gettandosi nei pozzi, prese da sete insaziabile; tuttavia il bere molto o poco dava lo stesso risultato[4].
Probabilmente perché Tucidide racconta qualcosa che ha visto con i suoi occhi, riesce con la sua prosa fredda e analitica ad andare addirittura oltre la poesia di Lucrezio. Tucidide non pretende di sconvolgere, di suscitare una reazione nel lettore, e questo lo rende più vero, più inquietante, perché immaginiamo quanto potrebbe dirci e non ci dice: il non-detto di Tucidide pesa molto di più di quanto ci viene detto in Lucrezio.
Forse è proprio l’assenza di spiegazioni allora che ci rende oggi più vicino alla nostra sensibilità lo storico greco: oggi, infatti, non abbiamo un sistema all’interno del quale incasellare le tensioni a cui siamo sottoposti ogni giorno. In Lucrezio la malattia e l’ansia per la morte sono descritte con tanta insistenza perché hanno un valore catartico: il lettore, attraversando l’opera, e quindi vivendo tutte le meraviglie, e tutto l’orrore nel mondo, si può emancipare da esso, e superarlo.
In Tucidide, invece, la malattia colpisce senza alcun preavviso e, come molti altri eventi della vita, rimane senza giustificazione, senza una ragione, ed è per questo che ci fa ancora paura.
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