Mi sento un artigiano del fotogramma. Vi piace? Devo precisare che ho un’ottima opinione dell’artigiano-artista. Deve lavorare con la testa, con le mani, con tutto. Chi fa del cinema dal vero, cioè regia, in fondo prende cose che ci sono già, sceglie personaggi, inquadrature, storie eccetera. Magari può permettersi un attore come Robert De Niro o Bernard Blier al quale dà tutte le dritte e che poi va per conto suo. Chi fa il mio lavoro deve far tutto tesserina per tesserina, crea qualcosa che prima non c’era e lo fa vivere. Ecco cosa intendo per artigiano del fotogramma.
Osvaldo Cavandoli
Ci sono personaggi che, per motivi differenti (biografia, opinioni politiche, produzione, stile…), non è facile incasellare in una definizione specifica. Osvaldo Cavandoli è uno di questi.
Cavandoli (1920, 2007) è stato un artista dalla personalità esuberante e dalla creatività eclettica che ha contribuito a scrivere un pezzo della storia della cultura popolare italiana. Disegnatore, illustratore, cartoonist, regista, grafico pubblicitario, Cavandoli amava definirsi semplicemente “artigiano dell’umorismo”, una formula che non esprime solo una profonda e sincera umiltà, ma che fornisce anche un’interessante chiave di lettura del suo processo creativo e della sua intera opera.
Anche dopo la chiusura di Carosello (1° gennaio 1977), in un periodo storico in cui le nuove tecnologie venivano ad occupare un ruolo sempre maggiore nella vita di tutti i giorni e stavano cambiando completamente il mondo del cinema d’animazione, Cavandoli ha sempre continuato a disegnare i suoi cartoni a mano, rifiutando l’impiego del computer persino per le operazioni di postproduzione, e preferendo lavorare invece con la moviola e con una vecchia cinepresa degli anni Venti.
Inizia la sua carriera come “intercalatore”, cioè il disegnatore addetto a disegnare i passaggi tra un fotogramma chiave e l’altro, all’interno della casa di produzione Pagot Film, dove imparerà il mestiere e lavorerà alla realizzazione del primo lungometraggio animato italiano: I fratelli dinamite (1949). Successivamente decide di mettersi in proprio e apre insieme all’amico Ugo Gelsi lo studio Pupilandia, specializzato in pubblicità con i pupazzi animati che venivano proiettate al cinema prima dell’inizio dei film. È proprio nella realizzazione di questi corti con la tecnica del passo uno che Cavandoli esprime tutto il suo estro creativo, il suo inimitabile umorismo e la sua versatilità: sceneggiatore e regista, crea a mano anche tutte le scenografie, i costumi di scena e gli stessi personaggi, con perizia artigianale e cura per i dettagli.
La sua creatura più famosa è certamente l’omino della Linea, buffo personaggio composto da un unico tratto che ha fatto la sua comparsa sulla televisione italiana per la prima volta nel 1969 nella réclame della ditta di pentole Lagostina, e che da allora si è trasformato nel compagno di una vita. Mr. Linea (o Mr. Mark, il nome è cambiato più volte nel corso degli anni) è ancora ricordato con grande affetto da quella generazione che è cresciuta con gli spot di Carosello prima di coricarsi ma, dopo la chiusura del programma televisivo, per questioni di immagine e di copyright mai completamente chiarificate, La Linea è stata bandita per sempre dal servizio pubblico italiano.
Assistiamo quindi al curioso caso per cui, tra le nuove generazioni, sono più spesso i giovani stranieri a riconoscere e ad amare Mr. Linea, con le sue disavventure e gli irriverenti sberleffi, piuttosto che gli italiani. All’estero, in particolare in Francia, Germania, Est-Europa, ma anche in Israele, Turchia, Sudafrica, Israele e Giappone, dove il personaggio non è in alcun modo legato al brand Lagostina e non esiste il veto della Rai, gli spassosi cortometraggi di Cavandoli godono tuttora di grande notorietà. I (più) giovani italiani che invece possono dire di avere visto La Linea in televisione lo devono alla TV svizzera o, in tempi più recenti, ai canali privati di Sky.
Nonostante questo ostracismo, però, Osvaldo Cavandoli e la sua Linea continuano ad essere ben conosciuti e studiati all’interno del mondo accademico, soprattutto quello italiano. Mr. Linea è citato all’interno di ogni manuale di design quale esempio di perfetta sintesi della forma e del movimento. Lo storico del cinema d’animazione Giannalberto Bendazzi attribuisce all’opera di Cavandoli una tale importanza per l’evoluzione di questo particolare linguaggio visivo da avere voluto La Linea sulla copertina della sua ultima opera: una monumentale storia globale dell’animazione dalle più antiche, insospettate origini, fino al presente.
Oggi la critica considera all’unanimità Cavandoli un’eccellenza italiana nel mondo e, ancora più nello specifico, un’eccellenza milanese. Alcuni autori hanno infatti voluto leggere nel suo metodo di lavoro e nella sua capacità di unire spirito imprenditoriale e creatività alcuni tratti tipicamente ambrosiani.
Il “caso Cavandoli” solleva alcune questioni che ci portano ad interrogarci sul concetto di arte e di artista. La figura dell’artista come persona “speciale”, dotata di una sensibilità unica e che produce meravigliose creazioni in preda all’ispirazione che lo prende come una specie di delirio è un’invenzione piuttosto recente, sviluppatasi tra XVIII e XIX secolo, l’epoca del Romanticismo.
Prima di allora, l’artista era essenzialmente un tecnico, formatosi sui grandi maestri e addestrato nelle “arti”, nel senso di tecniche, di una particolare disciplina. Si trattava di un mestiere vero e proprio. Ancora più recente è l’idea che l’arte dovrebbe esistere solo “per l’arte” e non avere nessun contatto con qualcosa di basso e vile come il denaro. Tutti sanno che il mercato dell’arte fa girare enormi quantità di denaro, che lo faceva un tempo, quando a pagare erano arcivescovi e nobili, e che lo fa oggi, quando ad aprire i portafogli sono collezionisti privati, aziende o mecenati di vario tipo.
Eppure non appena questo rapporto diventa palese, come nel caso di un’ “arte” prestata alla pubblicità, si alza un muro. L’oggetto d’arte diventa prodotto, l’artista diventa un avido capitalista o, peggio, uno svenduto. Questa è anche la retorica che porta molti giovani artisti o, in senso più ampio, persone che vogliono lavorare nel mondo dell’arte a farlo gratuitamente, a farsi sfruttare da ricchi imprenditori senza che non solo non si rendano conto dell’ingiustizia, ma sentendosi addirittura attorniati da una sorta di aura di eroismo.
Questo stigma è anche il fattore che ha impedito ai prodotti della cultura popolare o bassa si entrare a fare parte del discorso artistico accademico fino a tempi recentissimi. Fumetti, film d’animazione, videogiochi erano considerati prodotti commerciali, fatti in serie per trarne profitto e, per questo motivo, privi di valore artistico. Come se gli artisti che lavoravano nelle botteghe medievali e rinascimentali avessero dipinto le migliaia di Madonne tutte uguali che riempiono i musei italiani per pura passione e sentimento religioso. Solo negli ultimi anni si è iniziato a ragionare seriamente sul valore culturale di questi media considerati inferiori e anche sulle loro qualità artistiche distintive. Un esempio per tutti è la trilogia di saggi a fumetto sui fumetti di Scott McCloud: Capire, Fare e Reinventare il fumetto.
Usiamo così spesso la parola “arte” che spesso dimentichiamo di continuare a chiederci cosa significhi veramente. Molte persone pensano all’arte come a qualcosa di estremamente elevato e, per questo, astratto: “l’espressione più alta dell’intelletto umano”, qualunque cosa voglia dire. La confusione è anche data dal fatto che non solo il concetto di arte cambia (di poco) da persona a persona, ma cambia anche (di moltissimo) in base all’epoca storica e alla società che prendiamo in considerazione.
Nell’antichità le arti erano incarnate nelle nove muse: Storia, Poesia lirica, Commedia, Tragedia, Danza, Poesia amorosa, Pantomima e Astronomia. Il mondo medievale aveva sette “arti liberali”: Grammatica, Retorica, Dialettica, Aritmetica, Geometrica, Musica e Astronomia, che si distinguevano dai mestieri o “arti meccaniche” per la necessità di uno sforzo più intellettuale che manuale.
Le arti del mondo contemporaneo, quelle che ci sono più famigliari, sono sei: Architettura, Musica, Pittura, Scultura, Poesia, Danza, cui si aggiunge alla fine dell’Ottocento la famosa settima arte, il Cinema. Poi arriva il Novecento, un secolo “breve” ma molto incasinato. L’ottava arte è considerata la Fotografia, la nona il Fumetto. Alcuni hanno proposta la Radio come decima arte e la Televisione come undicesima, ma è un’idea che fa molto teoria dei media di metà secolo scorso. E come dovremmo ordinare tutte le altre “arti”, esplose dal secondo dopoguerra in poi e oggi studiate in tutte le università: la Moda, il Design, il Film d’Animazione, il Videogioco…? Come se non bastasse, poi, le arti hanno iniziato a contaminarsi tra loro, diventando indistinguibili. Gli artisti hanno cominciato a scivolare fluidamente da un medium all’altro e a crearne addirittura di nuovi, fino a rendere impossibile qualunque rigida categorizzazione.
Del resto, in latino la parola ars artis può avere diversi significati. Il primo significato, il più comune, è quello di “mestiere”, “professione”, il secondo è quello di “capacità”, “abilità”, talento”, il terzo si riferisce ad “arte” nel senso di “teoria”, “disciplina”, “scienza”. È solo il quarto significato del mitico dizionario di latino Il che riporta ad una traduzione più vicina all’arte come la intendiamo noi: artes, al plurale, può valere infatti come “opera d’arte”, ovvero il capolavoro di un grande maestro. Una nota abbastanza curiosa: il quinto significato dato dal vocabolario è quello di “artificio” nel senso di “inganno”, “raggiro”.
Ma ars è anche la radice di un’altra parola della lingua italiana che forse esprime in maniera più chiara, e certamente più concreta, ciò che molti di noi hanno in mente quando si parla del processo creativo che porta alla nascita di un’opera d’arte: “artigiano”. L’artigiano unisce conoscenze tecniche e manuali approfondite e esperienza empirica per creare un oggetto unico, fatto a mano, ma riproducibile. L’artigiano non si sofferma a riflettere sul valore artistico o intellettuale di ciò che sta facendo, utilizza gli strumenti migliori e i materiali più disparati unicamente per creare qualcosa che prima non c’era. L’artigiano lavora con passione, ma si aspetta di essere retribuito per ciò che fa. Per questo Osvaldo Cavandoli preferiva chiamarsi artigiano piuttosto che artista. Per questo forse non è stato sempre capito, ma ha continuato a fare ciò che amava fino all’ultimo giorno.
Se ne volete sapere di più su Osvaldo Cavandoli, sulla sua storia e sul suo lavoro, esiste una mostra virtuale a lui dedicata: un sito in cui sono raccolti fotografie d’epoca, interviste e alcuni filmati della Linea e delle pubblicità con i pupazzi animati, molti dei quali inediti. Il sito, realizzato dal sottoscritto, anche se richiederebbe parecchie migliorie, soprattutto dal punto di vista grafico, rimane al momento la raccolta digitale più ampia sulla vita e l’opera di Osvaldo Cavandoli.