Se sei vivo spara Giulio Questi

Se sei vivo spara di Giulio Questi: un film tutt’altro che prevedibile

La critica entusiasta, il pubblico allibito, la censura in allarme! Il film è severamente vietato ai minori di 18 anni, perché trattasi di esperimento allucinante ai limiti del proibito. Dato il crudele realismo delle scene se ne sconsiglia la visione alle persone facilmente impressionabili.

Alla faccia.

Credo nemmeno Antichrist abbia suscitato tanto e tale allarmato rumore.

Certo, Antichrist non è stato girato nel 1967: epoca ridente che, pur a ridosso di una delle più grandi rivoluzioni di mentalità nella storia dell’uomo moderno, poteva ancora vantare avvertenze di tale vereconda verbosità (per non parlare dei trailer[1]).

E Giulio Questi non è Lars von Trier (per fortuna).

Oggi, come forse si sarà già capito dal titolo incisivo quanto evocativamente tamarro, si parlerà di un film appartenente al genere del western all’italiana (o “Spaghetti Western”: nomea negativa che ormai è quasi assunta a marchio di fabbrica prettamente positivo).

… preceduto da una rapida, rapidissima riflessione: di recente abbiamo trattato di videogiochi per poi balzare – incredibilmente – alla letteratura; l’ultimo topic effettivamente western è stata l’ormai attempata riflessione su Westworld. Ora, quindi, qualcuno potrebbe starsi ragionevolmente chiedendo: perché andare così metodicamente a cazzo di cane?

Perché non seguire, nella ciclica realizzazione di articoli, un unico fil rouge?

Ma ragazzi miei: perché il rosso non tira minimamente, quest’anno.

In compenso ce n’è tanto, in questo film, di rosso.

“Sei tu, Gesù?” (Illustrazione alternativa della locandina del film realizzata da Walter Venturi).
“Sei tu, Gesù?”
(Illustrazione alternativa della locandina del film realizzata da Walter Venturi).

Frutto di un lavoro su commissione marciante sulla grande popolarità del genere e lungamente flagellato e tagliuzzato dalla censura (con una violenza forse paragonabile a quella della pellicola stessa), Se sei vivo spara (1967) si affida alla sceneggiatura di Giulio Questi e dell’inseparabile Franco Arcalli.

La vicenda di partenza potrebbe essere uscita da un qualunque volume di canovacci western (se una simile perla esistesse): una rapina parecchio fruttuosa, un tradimento non particolarmente inaspettato, un protagonista “meticcio” (un mezzo americano, mezzo messicano, tutto badass interpretato da Tomás Milián[2]) fatto sopravvivere da ragioni di trama per cercare vendetta.

Qui come nella maggioranza degli articoli precedenti, l’incipit non vi tragga in inganno: è la base squadrata su cui costruire una vicenda tutt’altro che prevedibile. Surrealismo, gotico e dark la fanno da padrona, in questa pellicola, andando anche a prevalere sui «cavalli e le pistole» (fortunata espressione di Sergio Leone) che del genere di partenza costituiscono il sostrato irrinunciabile.

Rappresentazioni oniriche a allucinate da capogiro su una palette spenta e desolante (degna del miglior Corbucci) che sembra valorizzare e intensificare solo il cremisi del sangue[3]suggestioni psicanalitiche e horror, violenza tarantiniana ante-litteram (nei limiti imposti dai mezzi di quello splendido decennio)[4]; il tutto condito da una spolverata di omosessualità neanche particolarmente latente.

Nella valorizzazione della componente horror il sangue arriva talvolta solo secondo: le immagini veramente foriere di angoscia sono spesso le più “pulite”, quelle in cui i fluidi vitali permangono nei loro gusci di carne[5]. A rendere terrificanti (sempre nel rispetto delle limitazioni di quegli anni) tali scene è un magistrale insieme di montaggio, presentazione e disturbante accompagnamento sonoro.

Kill bill

Mai pensato che innocui e carinissimi animaletti potessero definirsi fonte di ansia? Se sei vivo spara vi darà spunti per ricredervi.

Vero uomo nero e cattivo indiscusso del film, poi, è il più inaspettato: l’uomo stesso, quello comune. Il cittadino timorato di Dio[6]. Qualunque malvagità dei cattivi “titolari”, di quelli che in un film di stampo convenzionale sarebbero i veri villain, impallidisce di fronte alla crudeltà repressa del più umile dei cittadini: e soprattutto di fronte all’esplosione della stessa che può compiersi nel pieno e indiscusso rispetto delle “regole” della Frontiera.

La pellicola si barcamena di violenza in violenza, di barbarie in barbarie, in un crescendo che attinge a piene mani dalle esperienze partigiane degli autori durante la Seconda Guerra Mondiale. In questo film la Storia si intravede anche attraverso i tamburi dei revolver e le tese dei cappelli, contro ogni abituale convenzione del genere: Se sei vivo spara è un incubo, ma un incubo familiare.

Possibile che quei rancher in uniforme nera, machi fino all’omoerotismo sfogato sugli indifesi, siano gli squadristi del West?

Possibile. Ma credo sia meglio non indagare.

Una curiosità, prima di concludere. Questi, come ogni regista di western all’italiana che si rispetti, avrebbe voluto girare il suo film nell’iconica regione spagnola dell’Almeria. Varie difficoltà logistiche, tuttavia, lo spinsero a realizzare Se sei vivo spara interamente a Madrid, in un cantiere: un ammasso di terra finissima, frutto del lavoro delle scavatrici, su cui lui andò a costruire la vicenda e il suo setting.

Non male, quello che si può fare con un cantiere.

Vero, Primavera di granito?

Se sei vivo spara
Beccarvi una pallottola sarà la cosa più carina che potrebbe capitarvi in questo film (sempre che moriate sul colpo, si intende)
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