Ogni cosa è illuminata, film del 2005 diretto da Liev Schreiber, non è semplicemente la storia di un viaggio. Anzi, si potrebbe addirittura dire che non è affatto la storia di un viaggio, ma piuttosto una riflessione sul senso del passato.
Un invito quindi, un’esortazione a ricercare instancabilmente le luci che illuminano il presente e lo rendono comprensibile. E non è un caso, dunque, che la trama si costruisca secondo differenti livelli, che altro non sono che le vite dei personaggi, le quali si intersecano mai casualmente e partecipano tutte alla definizione del quadro finale.
Siamo nell’Ucraina del primi anni Duemila e la famiglia Perchov, di Odessa, tira a campare organizzando viaggi per ricchi ebrei, interessati a vedere i luoghi dove vissero i loro familiari prima dell’occupazione nazista del paese
Una famiglia strana questa. C’è il nonno, rimasto vedovo recentemente e da allora convinto di essere cieco. C’è Sammy Davis Junior Junior, la sua cagna-guida: un animale «mentalmente degenerato», che passa le sue giornate ad abbaiare e mordere chi le passa a tiro. Il padre, uomo «di prima classe nel tirare i pugni» con cui gestisce i rapporti familiari. E infine Alex: un giovane scapestrato, con il mito dell’America e dei rapper, che passa la vita tra la discoteca e gli amici, apparentemente privo di ogni occupazione e interesse tranne che per il lavoro di commercialista e la break dance (nella quale si autodefinisce «superiore»).
Una famiglia le cui stranezze sono rese ancora più evidenti dal comico contrasto con Jonathan Safran Foer, il giovane ragazzo degli Stati Uniti che si rivolge a loro per cercare il villaggio dove visse e da cui fuggì suo nonno.
Jonathan è un maniaco collezionista, che ruba, insacchetta e conserva i più svariati oggetti: dalla dentiera della nonna morta, agli animali che trova lungo il viaggio. Sempre vestito di nero, dai modi affettati, timido, cinofobo, vegetariano (con grande sgomento e sospetto di tutti coloro che incontra) è esattamente l’opposto dello spigliato e tamarro Alex. A dispetto delle aspettative, sarà proprio questa profonda differenza a permettere loro di intessere un solido legame, tale da perdurare anche dopo il ritorno a casa di Jonathan.
Il film è leggero, ma, per parafrasare Calvino, di una leggerezza simile a quella dell’uccello e non della piuma: comico di una comicità raffinata, ricorda (pur senza raggiungere le stesse vette) Train de vie di Radu Mihăileanu. E d’altronde, come accennavamo prima, il tema che trattano, anche se battendo differenti strade, è lo stesso: lo sterminio degli ebrei. Jonathan, Alex, il nonno e la sua “essenziale” cagna-guida, infatti, partono alla ricerca di Trochenbrod, il piccolo paesino, adibito a ghetto per gli ebrei dopo l’invasione dei nazisti e infine distrutto, dove il nonno di Jonathan visse prima di fuggire per l’America.
A bordo di una vecchia auto sovietica, con alla guida il nonno “cieco”, lo spettatore viene preso per mano e trasportato nella profonda Ucraina. Un paese stupendo e contraddittorio, in cui i residui del passato si mescolano malamente con l’occidentalizzazione forzata, in cui operai che sembrano usciti da un film di Ėjzenštejn si accompagnano a ragazzi in tuta adidas, baschi neri e collane placcate oro, un mix tra cattivo gusto e pacchianeria che contraddistingue coloro che «sono molto superiori», in quel di Odessa.
Ma questa non è che la patina che incrosta l’essenza di un’umanità che spera di superare di slancio la propria storia, senza però davvero farci i conti. Per questo in Ogni cosa è illuminata il viaggio non è che un pretesto. Un pretesto per ritornare passo dopo passo sul proprio passato e riscoprirlo e ragionarci sopra per riflettere sul senso del tempo nel suo fluire incessante.
Proprio “riflettere” potrebbe venir presa come parola-chiave del racconto. Dopo tutto, nel suo senso più proprio, la ri-flessione non è che il piegarsi all’indietro, il ritornare sul già stato, sul già detto, sul passato quindi. E per questa ragione Ogni cosa è illuminata si può benissimo descrivere come un film filosofico, un racconto che ci sprona al pensiero critico.
E anche il tema è proprio della filosofia: il tempo, la temporalità, lo scarto tra presente, passato e futuro. Il film prende di petto questi problemi e si sforza di mostrare e dimostrare che la linearità del tempo, cui sembriamo essere necessariamente legati, non è che parvenza, fenomeno destinato a dissolversi una volta che ne penetriamo i meandri concettuali.
Un tempo atomizzato, nel quale ogni istante è identico al precedente e al successivo, viene assunto in principio per essere rielaborato e rifiutato. È, il nostro, un modo istintivo di rapportarci al mondo, che ha come principale conseguenza la fretta di cancellare i fantasmi di ciò che è stato senza dar peso a ciò che sarà. La stessa fretta che citavamo prima, evocando la descrizione dell’Ucraina fatta dall’autore.
Superare la concezione lineare del tempo, dunque, ma per trovare cosa?
Il film sembra suggerire una risposta: trovare noi stessi nel senso più profondo dell’espressione. Il tempo, da oggettivo e a-noi-indifferente, diviene infatti tempo-per-un-soggetto, tempo per noi. Un tempo che ci appare sempre come ritenzione e proiezione. Ritenzione di un passato che viene costantemente trattenuto ed è condizione di possibilità del presente, e proiezione di un futuro che non è ancora presente dispiegato, che è dunque potenzialità latente.
Dalla vita “ingenua” di Alex, che all’inizio del film è tutto concentrato in un effimero qui e ora e ci confessa di credere che «il passato è passato [e] come tutto quello che non è di ora dovrebbe rimanere sepolto lungo il fianco dei nostri ricordi», emerge una vita mediata dalla consapevolezza delle proprie radici inevitabilmente plurali. Una vita nella quale il passato non nientifica il presente ma gli infonde nuova linfa e nuova sostanza.
Quello che risulta, in fin dei conti, è dunque una concezione circolare del tempo, che però sa protendersi innanzi e non ripiegarsi sterilmente su se stesso, ingarbugliandosi in un vicolo cieco. Per citare il monologo finale, un’idea del tempo per la quale «ogni cosa è illuminata dalla luce del passato. È sempre lungo il nostro fianco. Dall’interno guarda l’esterno».
Frase questa che, da sola, racchiude tutto il senso del film.