Dopo qualche anno di silenzio, è uscito il nuovo romanzo di Sandro Bonvissuto, La gioia fa parecchio rumore, che a dire dell’ultima recensione su Repubblica di domenica 15 marzo, sembra diventato un caso letterario.
Sandro è un amico con cui, per motivi dipendenti dalle nostre vite incasinate, è tanto tempo che non ci si vede, ma ogni tanto un messaggino, tanto per dirci «ci sono» non manca. Sapevo che era impegnato, o meglio straincasinato, a scrivere questo libro, ma, e questo mi ha sorpreso felicemente, ne ho sentito parlare dalla stampa di prim’ordine. A breve leggerò questo testo, il cui titolo sembra un ossimoro con questi tempi bui e grigi, privi di gioia. Pensavo di fare una delle mie solite recensioni dopo averlo letto, ma a causa di questa situazione sarà una cosa che farò in seguito.
Congratulandomi con Sandro, dopo aver letto l’articolo, gli ho chiesto se potevo fargli due domandine per i lettori del nostro blog, e lui ha accettato.
Allora Sandro, è stato un piacere leggere di te su un giornale come Repubblica, che due settimane fa ti aveva dedicato uno spazio anche sulla sua rivista del Venerdì. Stai diventando un caso letterario con questo libro, che ancora non ho letto e proprio per questo, sono curiosa di sapere di cosa tratta. Durante questi anni ne abbiamo parlato e so che è stato difficile per te trovare il tempo e la concentrazione, nella tua, come la mia, vita incasinata e a tratti impossibile.
Lasciamo perdere; a chi lavora sotto padrone va la mia solidarietà, a chi pubblica per un grande editore va la mia stima, a chi fa tutte e due le cose gli dovrebbero dare direttamente il premio Nobel per la Pace. I costi personali che sostengo per questa mia passione di scrivere fa di me più un caso umano che uno letterario. In tutti i modi il libro è uscito il 4 febbraio, ed è stato accolto con grande benevolenza dalla critica e grande calore dai lettori. Non si può chiedere di più. Tratta dell’amore del bambino per la sua squadra del cuore. È ambientato a Roma fra la fine degli anni ’70 e i primi anni 80.
Senza entrare nei dettagli della storia, che vogliamo gustarci appena riapriranno le librerie, chiuse dal Decreto per il Coronavirus, il titolo è davvero accattivante e si offre a molteplici interpretazioni. Raccontaci cosa vuoi comunicare, quale messaggio hai lanciato ai lettori, che hanno apprezzato, visto che sono state vendute più di diecimila copie, in questo inquietante 2020.
Il titolo è una frase che sta dentro al libro che è piaciuta in casa Einaudi, tanto da finire poi a dare il nome al volume. È la storia di quel bambino ma di più di una intera comunità. È una storia di popolo. E il popolo, notoriamente, è rumoroso. Questo rumore è il suono dei sentimenti, quando questi abitano la vita e non sono nascosti in stanze segrete. È un libro d’amore, racconta qualcosa molto simile ad un’educazione sentimentale.
Questo blocco di ogni attività ha sicuramente interrotto le presentazioni, che sicuramente avevi in calendario. Facciamo finta, come nei giochi più belli dei bambini, che questo blog sia una libreria, tanto è variegato nei gusti e nei temi che tratta, in cui sei stato invitato a presentare il tuo libro. Oltre a quello che ci hai già detto, mi piacerebbe se ti presentassi come scrittore, che di mestiere non è un intellettuale. È la cultura del popolo romano, di cui fieramente ti senti parte, ormai diffusa nella diaspora della modernità, che incarni e di cui vorrei parlassi ai nostri lettori di ogni parte d’Italia, perché ci accomuna e ci affratella.
Sono un atipico, è stato sempre così, un irregolare. E la stessa circostanza si ripresenta nel momento in cui mi metto a scrivere. Per quello che riguarda la tua domanda, penso che lo scrittore e l’intellettuale siano due mestieri completamente diversi, non sempre praticati insieme dallo stesso individuo. Ammesso che uno abbia i requisiti per essere considerato uno scrittore, qualifica che oggi si elargisce con troppa generosità, almeno secondo me, poi deve dimostrare di essere anche un intellettuale. Io invece scrivo e faccio il cameriere in trattoria da vent’anni, e certo, anche questi, sono due mestieri diversi.
Convivono, perché hanno un equilibrio fra loro: scrivere e servire ai tavoli in fondo sono un po’ la stessa cosa, si tratta sempre di portare qualcosa a qualcuno. Circa l’appartenenza alla propria cultura d’origine, questo non è qualcosa che si pratica o si fa, ma qualcosa che si è. È rappresentata dalla lingua madre, che è il linguaggio di mia madre. E di “mamma Roma”. Per scrivere in italiano traduco me stesso, perché penso in dialetto. Peggio ancora io “sento” in romano. Perché lo sono.
Ringrazio Sandro per questa intervista a distanza, com’è possibile fare in questi tempi di isolamento. Lo ringrazio per la sua semplicità che lo rende grande, per quel suo mettere in relazione il mestiere di scrittore con quello del cameriere, che per la nostra nazione è quasi una bestemmia. La letteratura, più delle altre arti, risente di questo pregiudizio, che relega ai margini scrittori e poeti al di fuori della cerchia colta e parruccona.
Sandro Bonvissuto, eterno precario nel lavoro di scrittore come di cameriere, coglie del suo tempo l’essenza più dura e reale, che eterna nella sua prosa scarna ed essenziale. Una prosa che mette il dito nella piaga di una civiltà erosa dal consumismo, che si guarda indietro nel recente passato, di cui rimangono foto in bianco e nero, per ritrovare la gioia popolare, quella semplice, che fa rumore, troppo rumore, o per dirla alla romana, fa casino.