Scena: è venerdì sera, e da una bella poltrona in terza fila dal palco vi state godendo a teatro una rappresentazione di – boh, Il flauto magico di Mozart. L’orchestra fa il suo dovere in maniera eccellente, i cantanti stanno lavorando sodo per meritarsi gli applausi con cui il pubblico saluta la conclusione delle arie più amate. La regia è piuttosto tradizionalista, con qualche punta di audacia nei costumi: le tre damigelle della Regina della Notte[1], per esempio, esibiscono un décolleté da urlo.
Tutto sta filando liscio quando all’improvviso, verso la fine del primo atto, la polizia irrompe nella sala: udite udite, lo spettacolo dev’essere interrotto perché fuori legge. Da quel momento in poi, se si vuole che la rappresentazione prosegua, tutta l’orchestra dovrà sgombrare il campo: resteranno solo due musicisti, a scelta del direttore. Stessa cosa per i cantanti: sul palco rimarranno solo i due protagonisti, Tamino e Pamina. Ah, e poi tutte le arie del secondo atto saranno cancellate. Il singspiel[2] verrà solamente recitato e non più cantato, ad eccezione di due arie che potranno essere eseguite dai suddetti due cantanti accompagnati dai due strumenti. «Scandaloso!», grida qualcuno. «Impossibile!», grida qualcun altro. «Al posto di Tamino e Pamina non si potrebbero tenere sul palco le tre damigelle?», suggerisce un terzo.
Questo scenario può forse risultare scandaloso, ma non è impossibile. Nella Francia di fine ‘600, anzi, doveva probabilmente risultare piuttosto familiare. Parigi, anni ’60 del secolo diciassettesimo. Da una ventina d’anni il trono di Francia è occupato da Luigi XIV, che insieme a una serie di importanti riforme in campo civile, militare e religioso ha messo in atto una politica di generale rinnovamento artistico e culturale. Ansioso di dar lustro al suo regno in ogni modo possibile e immaginabile, il re scoperchia i suoi forzieri per chiunque si dimostri degno di beneficiare del loro contenuto: per pittori, poeti, letterati e musicisti è praticamente una nuova età dell’oro.
Lo stesso Luigi, poi, non è certo un incompetente: ha ricevuto una buona educazione musicale ed è un ballerino formidabile. Attorniato da tutto un codazzo di coreografi, scenografi e danzatori ha preso parte con entusiasmo alle rappresentazioni di quei ballets de cour che il suo compositore preferito ha provveduto a sfornargli in quantità industriale. Il suo compositore preferito è un giovane italiano che, però, detesta la sua patria fino al punto di voler rinnegare l’originale grafia del proprio nome: per tutti, dentro e fuori dai confini del regno, quest’uomo si chiama Jean-Baptiste Lully.
Il vero nome di Lully era Giovanni Battista Lulli, figlio di un mugnaio fiorentino. Arrivato in Francia non si sa bene come all’età di quattordici anni – con l’unico bagaglio di un buon orecchio musicale, un naturale penchant per il teatro e una faccia di bronzo di prima categoria – Lully si era ben presto aperto la strada fino alle più alte sfere dell’aristocrazia francese: ballerino di talento e musicista geniale, aveva saputo conquistarsi non solo la simpatia, ma l’ammirazione incondizionata di Luigi XIV.
Inoltre, in una corte che dopo la morte dell’intrigante cardinale Mazarino aveva cominciato a ostentare in tutta libertà un certo disprezzo per gli italiani[3], Lully aveva capito l’antifona e si era adattato senza troppe storie: si era fatto naturalizzare francese, rimuovendo così uno dei più grossi ostacoli all’imposizione della sua autorità sulla musica della corte, che in breve tempo divenne immensa.
Il successo del fiorentino trovò un ulteriore trampolino di lancio nella collaborazione, instaurata a partire dal 1664, con Jean-Baptiste Poquelin, divenuto celebre col nome d’arte di Molière. I due erano amici, si stimavano e, mettendo ciascuno la propria arte a disposizione dell’altro, riuscirono a dar vita a una forma di teatro tutta nuova: le comédies-ballets, commedie recitate i cui atti, però, comprendevano immancabilmente elaborate scene di musica e di danza, dette divertissements.
Il sodalizio con Molière impose la coppia dei deux Baptistes all’attenzione del regno intero, facendo piovere allori sulle loro teste e un’oscena quantità di soldi nelle loro tasche. Il fatto che entrambi, poi, li sperperassero tutti per esigenze artistiche (dalle più nobili in giù, fino al vino e alle puttane) non cambiava nulla. La loro stella brillava d’una luce radiosa, ma d’una luce di cui era facile inebriarsi. E Jean-Baptiste Lully – un uomo che aveva sì il cervello di una volpe, ma anche gli stessi freni morali – non era tipo da resistere al suo fascino.
Nel 1671 tutta Parigi diede fuori di matto per l’ultima novità offerta dalla scena musicale: un’opera lirica cantata interamente in francese. Pomone, dramma pastorale con musica di Robert Cambert su un libretto di Pierre Perrin, fu un autentico trionfo[4]. Le repliche si susseguirono per otto mesi, durante i quali il pubblico sembrava non stancarsene mai. Lully dovette inizialmente guardare con un certo disgusto quel tipo di spettacolo che imbastardiva lo stile di composizione tipico dei musicisti francesi – che lui stesso aveva portato alla perfezione – con un genere musicale tipicamente italiano. Poi però, le folle oceaniche che salutavano in Pomone il futuro della musica francese dovettero fargli cambiare idea.
Baptiste, Molière, aveva fatto rappresentare nel proprio teatro alcune delle loro comédies-ballets senza farlo partecipe dei guadagni. Una decina d’anni prima la faccenda avrebbe anche potuto essere aggiustata con una chiacchierata amichevole e un’allegra sbronza in compagnia, ma ora le cose erano decisamente cambiate. Lully sentiva minacciata da più fronti la sua influenza sulla scena musicale del regno, e non era cosa che un uomo del suo stampo fosse disposto a tollerare.
Approfittando del fatto che Pierre Perrin, il librettista di Pomone, entrava e usciva di prigione perché indebitato con l’universo mondo, Lully riuscì ad acquistare da lui il privilegio reale per la rappresentazione di opere in musica in terra di Francia. Questo pezzo di carta assicurava al suo possessore il diritto esclusivo di mettere in scena le neonate opere liriche in lingua francese, ma gli imponeva di farsi carico di tutti i costi relativi all’operazione: Luigi XIV, che non era uno scemo, aveva capito che se la corte si fosse messa a sovvenzionare anche questa nuova, costosissima forma di spettacolo il ministro delle finanze avrebbe ben presto tentato il suicidio. Con l’acquisizione di questo privilegio, Lully si assicurava non solo che Cambert e Perrin non potessero più replicare il successo di Pomone, ma che nessun altro in tutti i territori del regno potesse anche solo sperare di farlo.
Restava però il problema di Molière. I rapporti tra Lully e il commediografo si erano ormai deteriorati a tal punto che, nel 1672, quest’ultimo aveva cominciato a sostituire la musica composta dal fiorentino per alcune delle loro commedie con nuovi divertissements approntati allo scopo da un altro giovane e brillante musicista, Marc-Antoine Charpentier. Anche in quest’atmosfera da separati in casa, tuttavia, Molière restava un rivale pericoloso, e come tale andava trattato. Fu così che con l’appoggio di un terzo Jean-Baptiste, il potentissimo ministro Colbert, Lully emanò un decreto che impediva a chiunque di mettere in scena opere drammatiche che comprendessero più di due numeri musicali, e che prevedessero l’impiego di più di due musicisti.
Era un colpo bassissimo. Lully sapeva bene che con un provvedimento del genere le commedie di Molière, per quanto brillanti, non avrebbero più costituito una grande attrattiva per un pubblico che ormai si era abituato ad assistervi tanto per la comicità dei dialoghi quanto per la bellezza dei divertissements. E quale fastoso divertissement avrebbe mai potuto portare in scena, una troupe dotata di due soli musicisti? Per quelli che, comunque, avessero avuto in animo di tentare qualche alzata d’ingegno, la punizione sarebbe stata esemplare: una multa stellare, accompagnata dalla confisca del teatro e di tutto quanto vi fosse contenuto.
Il decreto causò un’insurrezione generale di attori, musicisti e commediografi. Una loro delegazione capitanata da Molière in persona si appellò direttamente al re perché insegnasse al suo favorito qualche regola di buona creanza. Su ordine di Luigi, Lully dovette modificare il suo decreto, ma non volle comunque rinunciare a una simile occasione per far sentire tutto il peso del proprio potere su scala nazionale: ai teatri fu concesso l’utilizzo di sei cantanti e dodici violini[5], abbastanza per mettere su uno spettacolo decoroso, ma un nulla in confronto alle falangi di orchestrali che il fiorentino poteva chiamare a raccolta con un semplice schioccar di dita. Era altresì fatto divieto a chiunque di avvalersi dei servigi di musicisti e ballerini già impiegati presso l’orchestra di corte, perché fosse chiaro in modo inequivocabile quale fosse la linea che separava i veri musicisti da chi strimpellava gavotte sotto i lazzi dei saltimbanchi.
Poi, preparato così il terreno al proprio trionfo, Lully spalancò al pubblico pagante le porte del proprio teatro: un giorno d’aprile del 1673 Cadmus et Hermione, la prima delle sue tragédies-lyriques su libretto del poeta Philippe Quinault, vedeva finalmente la luce.
Nel frattempo, nei mesi in cui Lully era impegnato nelle prove della sua opera, Molière era impegnato a comprarsi un posto all’Inferno a suon di bestemmie. Esasperato dalla vittoria del suo rivale – che le prime indiscrezioni sulla qualità del Cadmus et Hermione gli facevano prevedere completa su tutti i fronti[6] – il commediografo progettò di risollevare le sorti del suo teatro con una grandiosa comédie-ballet scritta in collaborazione col solito Charpentier. Le malade imaginaire, concepita come una graffiante satira sul mondo della medicina, avrebbe dovuto comprendere oltre a cinque spassosi divertissements un colossale prologo in forma di Eglogue en musique et en danse, tutto rivolto a celebrare le recenti campagne militari di Luigi XIV con una clamorosa leccata di piedi.
Molière e Charpentier si buttarono a capofitto in quest’impresa disperata, sperando che la spettacolarità dell’opera valesse loro un invito da parte del re a rappresentarla a corte. Charpentier, in particolare, diede fondo alla sua fertilissima vena creativa scrivendo alcuni tra i migliori divertissements nella Storia della commedia (uno dei quali comportava, in partitura, l’arricchimento dell’orchestra con due pestelli da farmacista), oltre a un’eglogue che, nonostante le pacchiane lodi al re inserite nel testo, resta una delle pagine più felici della musica barocca francese.
È un gran peccato che, alla fin fine, tanto inchiostro sia stato speso per nulla. Il 17 febbraio del 1673, stroncato da una pneumonia, Molière collassò sul palco alla quarta rappresentazione del Malade imaginaire, morendo poco dopo tra le mura di casa sua[7]. L’invito del re non giunse mai, e quattro giorni esatti dopo la morte dell’ex amico e collega, Lully cominciò a infierire sulla sua troupe allo sbando con rapacità disumana.
Il fiorentino emanò un nuovo decreto che restringeva ulteriormente il campo d’azione dei compositori di musica per il teatro: alla loro creatività, stavolta, veniva imposto un limite invalicabile di sei violini e due cantanti. Le precedenti restrizioni, quelle che impedivano a chiunque in tutta la Francia di far rappresentare opere interamente cantate[8] e di impiegare nel proprio teatro musicisti già messi sotto contratto da Lully o dalla corte reale, restavano ovviamente in vigore. Con questa manovra spudorata, colui che per il suo genio e la dolcezza del suo stile avrebbe potuto aspirare all’unico titolo di padre amorevole della musica francese volle anche farsene l’assoluto, incontestabile padrone.
Il povero Charpentier dovette penare non poco per stare al passo con queste nuove, continue barriere imposte al suo genio. La partitura del Malade imaginaire è oggi sparsa in più fascicoli dell’enorme collezione di autografi approntata dal compositore nel corso della sua vita, ed è l’incubo di un filologo: arie aggiunte o rimaneggiate, divertissements tagliati, prologhi incompleti e nuovi prologhi che spuntano come funghi per rimpiazzare l’originaria eglogue che i tagli imposti da Lully avevano ormai resa ineseguibile. Lo stesso Charpentier, sull’orlo di una crisi di nervi, tentò di annotare vicino ai vari rimaneggiamenti a quale versione dell’opera appartenessero, creando in certi casi ancor più confusione.
Fu però con un ghigno di soddisfazione che alla morte di Lully, avvenuta in modo clamorosamente stupido nel 1687, il compositore dovette annotare accanto alle due versioni dell’ouverture da lui composte per la commedia due brevi commenti. Accanto al titolo della prima, più modesta e meno intraprendente, compare ancora oggi la sconsolata dicitura “avec les deffences” – “con i divieti [di Lully]”. Accanto alla seconda però, un vero tripudio di suoni che si apre su un ritmo trionfale e concitato affatto sconosciuto alle ouvertures francesi di quell’epoca, troneggia un’altra dicitura venata di sollievo e di un’ombra di rivalsa: “Ouverture du Prologue du Malade imaginaire” – finalmente – “dans sa splendeur”.