Marc-Antoine Charpentier: epitaffio di un compositore incazzato

Botticelli madonna con bambino e angeli in canto

Marc-Antoine Charpentier è uno dei compositori del barocco francese attualmente più rappresentati sul mercato discografico. Le sue opere, da lui stesso diligentemente raccolte e consegnate alla posterità nei 28 volumi manoscritti noti come Meslanges autographes, sono ormai conosciute e apprezzate non solo dal pubblico di nicchia che passa le giornate a scattarsi selfies con in testa parrucche straripanti di boccoli.

Epperò, nonostante le oltre 500 composizioni sortite dal suo fecondo calamo, il brano per cui il suo nome è ben noto anche al grande pubblico è la fanfara d’apertura del suo Te Deum. La conoscete. Lo so che la conoscete. E la conoscete perché nel 1954 è stata scelta come sigla di apertura dell’Eurovisione. Carina, eh? Niente da dire. Bella, pulita, ben scritta, decisamente catchy. Ma è pur sempre un pezzo di un minuto e mezzo, neanche particolarmente originale, e ricordarsi di Charpentier per un brano del genere è come ricordarsi dei Beatles per Wild Honey Pie[1].

La biografia di questo geniale compositore non è difficile da riassumere in poche righe. Nasce a Parigi o da qualche parte lì vicino, nel 1643. Verso i vent’anni se ne viene in Italia, a Roma, e ci resta per tre anni studiando con il più grande compositore di musica sacra del tempo, Giacomo Carissimi, esperienza che darà allo stile compositivo del giovane Marc-Antoine un’impronta marcatamente italianeggiante, soprattutto nell’ambito della musica sacra.

Tornato in Francia si mette al servizio di Mademoiselle de Guise, una nobildonna tutta chiesa e chiesa per il cui ensemble di musicisti sforna un capolavoro dietro l’altro: messe, mottetti, musica celebrativa, musica d’intrattenimento. Verso il 1672 conosce Molière, che ha modo di apprezzare la sua musica e pensa bene di spalancargli le porte del suo teatro: qualche anno dopo sarà proprio Marc-Antoine a musicare, con grandissima verve comica, gli intermezzi del Malade imaginaire, arricchendo per l’occasione l’orchestra di una schiera di pestelli da farmacista.

Marc-Antoine Charpentier
Marc-Antoine Charpentier

Con un simile curriculum, di tutto rispetto, potrebbe forse stupire che Charpentier non fosse proprio in cima alla lista dei compositori più conosciuti nella Parigi dei suoi tempi, e tuttavia è così. Non gli mancarono certo riconoscimenti al suo genio e persino pubbliche lodi tributategli dai giornali del tempo, ma il grande pubblico, che pure lodava e applaudiva la sua musica, continuava a preferirgli il prepotente Lully e altri compositori più attivi alla corte. Anche la sua marcata predilezione per la musica sacra, a dire il vero, non aiutava: il genere che più di tutti costituiva la chiave del successo di pubblico nella Francia di fine ‘600 era quello dell’opéra, con le sue melodie orecchiabili e le arie di balletto facili da fischiettare, e Charpentier non ne scrisse che una, la Médée, che nonostante l’altissima qualità musicale fu un mezzo fiasco. Si aggiunga poi il fatto che il nostro uomo non pubblicò quasi nulla durante la sua vita, e che non essendo virtuoso di nessuno strumento non si dedicò nemmeno alla composizione di quelle raccolte di musica strumentale che tanto piacevano anche ai dilettanti.

Ora, se a trovarsi in una situazione del genere fosse stato un Giggino Favazzi qualunque, un qualunque scribacchino della musica che si accontentava di dare alle stampe due sonate al mese per guadagnarsi la pagnotta, magari non si sarebbe lagnato più di tanto. Ma Charpentier non era Giggino Favazzi: Charpentier era bravo, era molto bravo, ed era per giunta maledettamente conscio di esserlo. Era deluso e amareggiato: compositori che lui giudicava perfetti incapaci venivano promossi a cariche prestigiosissime, mentre lui, che pure veniva tenuto in palmo di mano da molti esponenti dell’alta nobiltà, sentiva sempre e comunque sottostimate le sue abilità. E fu così che, non potendo sfogare coram populo tutta la sua amarezza, scelse di affidarla alla carta consegnandoci un brano che non ha eguali nella storia della musica: l’Epitaphium Carpentarij.

Da quella confusa farragine di musiche d’ogni sorta che sono i Meslanges di Charpentier l’Epitaphium emerge in modo del tutto innocente. Non è che una composizione da camera su un testo in latino in prosa, senza grandi pretese letterarie e a tratti reso un po’ sghembo da qualche refuso, e non si presenta come un qualcosa di maestoso. Per eseguirla servono sei cantanti (riducibili a cinque) e un numero decisamente esiguo di strumenti. Nella sua struttura si presenta come una sorta di opera in miniatura: è una cantata, una piccola scena messa in musica, senza scenografie e senza costumi, in cui tutto quel che bisogna sapere per comprendere cosa stia succedendo ci viene suggerito dal testo. Un preludio strumentale, semplice e brevissimo quanto macabro e lamentoso, fa aprire davanti ai nostri occhi un sipario inesistente. Comincia lo spettacolo.

È notte. Tutto tace. Due amici, Ignatius e Marcellus, si trovano a passare davanti a una tomba. Ad un tratto… «Quid audio?» domanda Ignatius, atterrito. Dalla tomba proviene un suono, un mormorio allo stesso tempo «horrisonum et harmonicum». La terra trema, la lapide rovina al suolo; la tomba vomita fuori uno spirito. Il fantasma è quieto e placido, non sembra avere cattive intenzioni, ma vallo a spiegare ai due viandanti che già sono pronti a darsela a gambe.

L’ombra trattiene i due amici con dolcezza e li rassicura, quindi si presenta: «Ero un musicista, dai buoni annoverato tra i buoni, dai mediocri tra i mediocri. E poiché il numero di quelli che mi disprezzavano era ben più grande di quelli che mi lodavano, la musica fu per me un grande onere, ma un ben povero onore; e così come nascendo non portai nulla in questo mondo così, morendo, nulla ne ho portato via[2]».

Gli amici si impietosiscono al racconto del fantasma, e ormai in loro la curiosità riesce persino a vincere la paura. Si fermano a interrogarlo, ma niente domande sulla vita dopo la morte, su Dio o sul mondo; solo una domanda semplice, innocente, modulata su una melodia dolce e malinconica: «Dicci, ombra cara, se c’è molta differenza tra la musica del Cielo e quella che si fa qui sulla terra[3]».  A quel punto il fantasma ha un moto di commozione, sembra non riuscire a trovare le parole, quindi esclama: «Ah, amici miei! Colui che sulla terra si chiamava Carissimi ha in cielo il nome di Capronus![4]» Stop.

Fermiamoci un attimo. Carissimi lo conosciamo, l’abbiamo incontrato prima: è stato il maestro di Charpentier a Roma, il compositore che per la sua perizia nell’arte della musica sacra è ben degno di essere qui giudicato come il perfetto modello di musicista. Il senso della frase, poi, è chiaro: anche chi in terra è stato il migliore dei compositori in Cielo non vale uno zero, se paragonato alla musica del coro degli angeli.

Jan Van Eyck, angeli che cantano e che suonano, 1432 (particolare)
Jan Van Eyck, angeli che cantano e che suonano, 1432 (particolare)

E allora chi accidenti è questo Capronus, questo esempio di musicista tanto pessimo da fare da contraltare a Carissimi?

Qui è proprio il testo della cantata, col suo latino maltrattato, a venirci in aiuto. Charpentier fa ripetere all’ombra la parola Capronus per due volte di seguito, ma la seconda volta con una diversa grafia: Chapronus. È un cognome latinizzato, il cognome di un altro compositore che evidentemente Charpentier considerava alla stregua della capra che il suo cognome evocava.

Costui non è altri che François Chaperon, che ai tempi poteva fregiarsi dell’invidiabile carica di maître de musique della Sainte-Chapelle, la più prestigiosa istituzione musicale sacra di Parigi dopo la cappella di Versailles. Ora, tenendo conto che non appena Chaperon si degnò di tirare le cuoia, nel 1698, Charpentier si affrettò a prenderne l’ambitissimo posto grazie anche ad una spintarella del Duca di Chartres[5], non si potrebbe forse congetturare che il nostro Marc-Antoine covasse qualche risentimento verso questo pover’uomo che teneva fastidiosamente occupato il posto ch’egli tanto bramava?

Non possiamo saperlo, in realtà. Della musica di Chaperon non ci è rimasta nemmeno una nota, e non possiamo formulare alcun giudizio sulla sua validità artistica. L’unica cosa certa è che, per quanto bravo potesse essere questo Signor Nessuno, Charpentier non lo riteneva nemmeno degno di sciogliergli i legacci dei sandali.

Ma torniamo all’Epitaphium. L’ombra di Charpentier ha appena dipinto ai due amici un’idilliaca immagine della musica celeste, e ora vuole supportare le sue parole con i fatti. Rivolge allora un’accorata preghiera a Dio: oh Dio, Dio «quem amo, quem possideo», non potresti gentilmente far sentire a questi due un assaggio della tua musica, della musica che gli angeli cantano per lodarti? La richiesta viene accolta, ed ecco comparire sulla scena un trio d’angeli: due soprani e un contralto che intonano un inno di lode alla Trinità. La musica, fino a questo momento grave e malinconica, si apre alla luce: dove regna la musica di Dio non c’è spazio per la tristezza.

Poi gli angeli si ritirano, improvvisamente come sono venuti, lasciando a bocca aperta i poveri Ignatius e Marcellus. «Sono stanco della mia vita!» esclamano gli amici, in un lamentoso duetto «Ah, quando, anima mia, volerai alle regioni del Cielo per gustare del miele di questa melodia?[6]»

Caravaggio, Il suonatore di liuto, 1600
Caravaggio, Il suonatore di liuto, 1600

L’ombra però li rassicura, esortandoli a vivere felici: quando poi arriverà anche per loro il momento della morte, solo allora potranno godere appieno di queste delizie musicali. E nel frattempo… nel frattempo dovranno fare una penitenza quantomeno singolare. «Fate penitenza!» tuona il fantasma «Correte alla musica di Chaperon! Sceglietela come vostro castigo e come vostro purgatorio, e dopo la morte gusterete le gioie della vita eterna![7]».

Lo spettacolo è finito, e in uno splendido terzetto fugato (tanto simile ai cori che solitamente erano posti in coda alle composizioni sacre) i tre protagonisti possono enunciare la morale dell’opera: «Beato colui che per cancellare le proprie colpe stancherà, castigherà, capronerà le sue orecchie con la fastidiosa, con la cacofonica musica di Chaperon, poiché dopo la morte al suo udito saranno concesse gioia e letizia in eterno![8]»

Noi non sappiamo quando Charpentier scrisse questo suo epitaffio, un epitaffio che è anche l’unica testimonianza da cui possiamo cavar fuori qualcosa sul suo carattere. La sua vita, condotta tanto lontana dai riflettori della corte del Re Sole[9], non è per noi che un insieme di date e citazioni in documenti ufficiali: i pettegoli del suo tempo, tanto bravi a cucire aneddoti più o meno probabili addosso a tutti, non ci hanno lasciato alcuna notizia di Marc-Antoine come uomo.

Questa velenosa cantata ce lo presenta come un uomo amareggiato, deluso, ma anche distaccato, ironico, a tratti sarcastico, con una consapevolezza del proprio talento guarnita da più di un pizzico di superbia. Io non me lo immagino uno Charpentier burbero e collerico che intinge nella propria bile la penna d’oca per vergare una duratura condanna del povero François Chaperon per gli occhi dei posteri.

Mi immagino invece uno Charpentier forse un po’ triste e malinconico, ma con un genuino sorriso che gli riga il volto mentre mette in scena il suo genio e l’incapacità del suo sconosciuto collega. Uno Charpentier che sa benissimo che avrebbe potuto scrivere meglio ogni nota scritta da Chaperon, ma che sceglie come unici strumenti della sua vendetta la sua splendida musica e la sua agra ironia. Uno Charpentier, insomma, che sogghigna e dice: «Tieniti la tua carica e la tua Sainte-Chapelle, Caprone: io non ho nessuna delle due, ma sono Marc-Antoine Charpentier.»

 

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Federico Franchin
Federico Franchin

Sono nato a Monza nel 1991 e vivo a Milano. Ho una spiccata tendenza a occuparmi di scrittori e musicisti giudicati minori o semisconosciuti, perché seriamente convinto che anche a loro faccia piacere sentir pronunciare il proprio nome, ogni tanto.