Juli Zeh cuori vuoti

Cuori vuoti: la deriva distopica del presente e l’oscurità del futuro

Questa non sarà la solita recensione. Cuori vuoti di Juli Zeh ha smosso qualcosa in me, facendo nascere vari interrogativi a cui proverò a trovare una risposta.

In passato vi ho già parlato di Juli Zeh, brillante scrittrice tedesca, e in particolare di due tra i suoi romanzi, che hanno riscosso un immenso successo ben oltre i confini teutonici. In Turbine viene raccontato il conflitto generato dall’imminente installazione di alcune pale eoliche, che altera profondamente l’equilibrio di un piccolo e bucolico paesino tedesco. L’anno nuovo è invece ambientato a Lanzarote, ed è un’indagine sul funzionamento della memoria umana e sul riemergere dei ricordi più reconditi. Insomma, non appena Fazi Editore ha annunciato la pubblicazione di un nuovo romanzo, non potevo esimermi dal leggerlo, date le premesse più che positive.

Dopo averlo divorato con grande curiosità, ho fatto passare qualche giorno per lasciar sedimentare le idee. Questo libro ha generato in me alcuni interrogativi, in particolare sul modo in cui alcuni temi assai delicati, come le ideologie totalitariste del secolo scorso o il terrorismo, vengono affrontati. Arte è sicuramente la libertà di scegliere il modo e la lente attraverso cui guardare la realtà. E a noi lettori e fruitori dell’opera, a volte, può succedere di non condividere la lente utilizzata dall’autore, forse perché siamo troppo miopi, o forse semplicemente perché non combacia con la nostra sensibilità…

Prima di affrontare queste questioni, però, devo ricostruire per voi il filo narrativo della storia. Siamo in Germania, nel 2025. Dall’Europa, dopo l’Inghilterra, è uscita anche la Francia. È in atto un’altra drammatica crisi finanziaria e, in Germania, è salito al potere un movimento populista e neofascista.

Riposa in pace, dibattito pubblico, sei stato il miglior padrone di casa di tutti i tempi. C’era sempre posto alla tua tavola, eri sempre disposto a cene vivaci o uscite al bar, eri capace di essere lotta e gioco, ma anche patria e scopo. CI lasci, inconsolabili, soli, distrutti.

Britta, la protagonista, è una donna pragmatica, fanatica dell’ordine, e porta avanti un’attività con l’amico Babak. “Il Ponte”, questo il nome della loro organizzazione, che all’apparenza è uno studio di psicologia, è dotato di un algoritmo in grado di scandagliare internet alla ricerca di persone stufe di vivere. Tali soggetti vengono poi contattati e sottoposti a svariate prove, e, ai più promettenti, viene proposto di sacrificarsi per una giusta causa. I clienti del Ponte, infatti, sono organizzazioni in cerca di persone disposte a morire per dare visibilità ad una causa, da associazioni estremiste ambientaliste all’ISIS. Nel 2025, non esiste più l’anarchia terroristica: tutte le morti sono controllate e sottoposte ai protocolli del Ponte.

Juli Zeh
Juli Zeh (credits: Sven Mandel)

Una sera, alla televisione, passa una notizia: un attivista è morto in un’azione in cui un gommone si scagliava a tutta velocità contro una baleniera, per protestare contro l’ingiusto sterminio delle balene. Britta è soddisfatta, Green Power, l’associazione a tutela delle balene, era loro cliente, e l’attivista non era altro che un soggetto reclutato dall’algoritmo. Anche stavolta l’operazione era andata a buon fine, portata a termine in modo pulito e impeccabile.

Intorno a questo filo narrativo, altre vicende scorrono in modo appassionante. Eppure, il cuore del romanzo mi ha lasciato un retrogusto amaro.

La distopia è un genere letterario che, personalmente, apprezzo molto, in quanto in grado di prevedere scenari futuri sulla base dei malesseri del presente; la distopia è in grado di suscitare interrogativi e di mettere in discussione i punti fermi su cui basiamo la nostra quotidianità. La Zeh presenta l’estremizzazione della società connessa, in cui internet è custode di tutti i nostri pensieri, a tal punto che un algoritmo è in grado di conoscere la predisposizione degli utenti al suicidio. Fin qui, niente di paradossale. Anzi, probabilmente non è neanche così distopico, è la narrazione fedele della realtà in cui viviamo.

Poi però, ci sono gli altri temi, delicatissimi, come quelli degli attentati terroristici. In questo futuro non tanto lontano, tali atti non sono più volti a generare terrore e compiuti da estremisti, ma azioni meticolosamente programmate da un’unica agenzia. Un’agenzia che organizza la fine della vita delle persone, a scopo di lucro. La causa, in fondo, è irrilevante: il punto centrale è far incontrare la domanda e l’offerta… la domanda e l’offerta di morte. Pur essendo uno scenario di un cinismo estremamente tragico, si capisce bene che l’attività del Ponte fa parte di questo scenario distopico.

Ciò che ha, se così si può dire, urtato la mia sensibilità, sono stati i riferimenti, sottili ma neanche troppo, ad un capitolo buio della storia, alle idee di pulizia, ordine ed efficienza, centrali durante l’epoca del nazionalsocialismo, come massime aspirazioni della società. Tali idee non sono inserite nel contesto di questa ipotetica società del futuro, ma vengono presentate come ferme convinzioni della protagonista. Britta sembra rendersi conto solo in alcuni momenti del fatto che un sistema in cui può esistere un’attività come la sua, che controlla e lucra su tutti gli attentati terroristici, è un sistema malato. Per il resto del tempo, invece, sembra quasi fiera di ciò che fa, di riuscire a organizzare la morte in modo così impeccabile. Essendo l’esaltazione dell’ordine e pulizia insite nell’animo della protagonista, sembrano essere normalizzate, accettabili, comprensibili. E forse è proprio questo che mi ha trasmesso una sensazione spiacevole.

Juli Zeh Cuori vuoti

Molto probabilmente l’obiettivo di tutto il romanzo, di questa distopia non così distopica, era, ancora una volta, porre l’attenzione sulle fratture che caratterizzano il nostro secolo e il nostro essere:

In verità, si potrebbero tappezzare intere pareti con le tesi sul fenomeno dei suicidi. Paura del futuro. Burnout. Fine della separazione dei ruoli. Seconda crisi finanziaria. Disgregazione dell’Europa. Indifferenza nei confronti delle classi più deboli. Maggiore discriminazione verso gli emarginati. Cattiva alimentazione. Solitudine. Scarso movimento. Senso di colpa. Il fallimento dei genitori degli anni Novanta nell’educare i figli. «Credo che dentro di noi, in fondo, ci sia un vuoto», risponde Britta.

Un punto più che legittimo e condivisibile, insomma. Sotto questo aspetto il romanzo, estremamente sfaccettato, riesce nel suo intento, facendoci domandare se anche noi, qualche volta, ci sentiamo con le mani piene e i cuori vuoti, come recita il ritornello della canzone rock che fa da colonna sonora alla storia e da cui è tratto il titolo, “Full Hands, Empty Hearts”. Eppure, a mio avviso, i riferimenti al nazismo che si trovano nel romanzo sono superflui. Pur condividendo appieno l’idea che la storia, se non conosciuta, si possa ripetere, e che le ricadute in sistemi politici antidemocratici siano sempre dietro l’angolo, ho trovato stridente la leggerezza con cui questi elementi storici vengono tirati in causa nella narrazione.

Il contesto delineato ben si presta alla nascita del populismo, definito dagli studiosi una “ideologia leggera”, che si delinea in particolare nei momenti di crisi economica, politica e sociale. Di conseguenza, in questo 2025 lacerato da un’altra crisi finanziaria, dal tracollo delle istituzioni europee e dal ritorno al nazionalismo e l’autosufficienza di ciascuno stato, il populismo e la deriva autoritaria sono conseguenze del tutto plausibili. Ciò che mi domando è se fosse così necessario riferirsi al nazismo e costruire un sottotesto basato sull’ideologia di esaltazione dell’ordine e della pulizia, in questo caso dalle persone più fragili, arruolate e ridotte a mere micce per far esplodere il meccanismo mediatico… probabilmente il messaggio sarebbe arrivato forte e chiaro senza scomodare un passato tanto tragico.

Riassumendo, la distopia è uno strumento oltremodo efficace per far riflettere, e lo è persino una satira velata al passato, che può rendere ancora più reale lo scenario delineato. La satira attacca il potente, scardina la narrazione dominante. Il fatto che Juli Zeh utilizzi questo mezzo potentissimo è una presa di posizione, un difendere strenuamente la propria libertà e la possibilità di avere un dibattito in un sistema, quello del ventunesimo secolo, che ci rende sempre più schiavi e più controllati. E il messaggio del romanzo, alla fine, arriva al lettore: se non siamo in grado di prenderci cura del sistema democratico in cui viviamo, rischiamo il ritorno di quella storia. Insomma, ho trovato questi riferimenti stridenti e superflui, in un romanzo che altrimenti sarebbe stato un thriller estremamente sferzante e ben costruito.

In breve, “Cuori vuoti” conferma l’idea che avevo in precedenza, ossia che Juli Zeh sia una brillante lettrice dell’epoca in cui viviamo, capace di farci riflettere sulle implicazioni del progresso e sulle contraddizioni del nostro tempo. Eppure, non mi ha fatto cambiare idea sul fatto che alcuni temi, e ancor di più alcuni pezzi drammatici di storia, richiedano una cura particolare nell’essere trattati. In fondo però, probabilmente era questo lo scopo: farci aprire gli occhi e proporci uno scenario non così tanto inverosimile nel momento in cui il populismo imperversa e le ideologie pericolose e discriminatorie prendono il sopravvento. Grazie allora a Juli Zeh per averci, ancora una volta, aperto gli occhi sulle incongruenze del tempo in cui viviamo.

 

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