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Le benevole: i demoni di Jonathan Littell

Se guardassimo la storia con gli occhi dei demoni, cambierebbe qualcosa? La domanda che spesso sorge quando si pensa alla Seconda Guerra Mondiale è come sia possibile che milioni di persone abbiano deciso di seguire le folli idee di un assassino, diventando essi stessi assassini o peggio ancora complici. Per rispondere a questo interrogativo bisogna immedesimarsi nella folla tedesca di quegli anni, mettersi nei panni di chi ha compiuto quel terribile sterminio.

Già prima dell’inizio della guerra furono sterminati quasi tutti i disabili e malati mentali tedeschi internati nei manicomi, Hitler aveva pensato anche di dimezzare la popolazione polacca – una volta risolta la questione ebraica -, e poi dissidenti politici, sovietici, spagnoli, italiani, tartari; e infine il tragico dato sull’Olocausto, più di sei milioni di ebrei massacrati.

Littell prova a farci capire cosa significava stare dalla parte dei demoni in quegli anni, più precisamente dal 1941 al 1945, e lo fa con un libro denso, crudo, che lascia senza parole, non solo perché la scrittura è veloce, appassionante e coinvolgente; ma anche perché a volte sa essere devastante, vomitevole, demoniaca (appunto), degna di conati e pause riflessive su ciò che realmente hanno dovuto subire le persone che per loro sfortuna (e forse anche nostra) hanno incontrato i nazisti.

soldati ucraini nazisti

Lo scrittore, ebro di origine polacca, laureatosi a Yale, ma che vive per gran parte della sua infanzia in Francia, scrive questo capolavoro narrativo nel 2006. Lo intitola Le Benevole perché queste sono le personificazioni femminili della vendetta nella mitologia e religione greca antica. Venivano raffigurate con colori oscuri, le bocche spalancate che emanavano urla strazianti, i capelli rettiliani, con in mano ogni sorta di possibile oggetto che potesse recare le peggiori torture al malcapitato (solitamente assassini che avevano agito su conoscenti o familiari), fino a farlo impazzire.

Il libro è scritto, nell’originale, in francese ed è diviso in sette parti. Ognuna porta il nome dei movimenti di una suite di danze, genere musicale nel quale spiccano le figure di Johann Sebastian Bach e Jean-Philippe Rameau, due degli autori preferiti del protagonista del libro: Maximilian Aue.

Maximilian Aue è un ufficiale delle SS, nato in Germania e cresciuto in Francia tra i suoi conflitti interiori ancor prima di affrontare quelli esteriori. Combatte contro la sua omosessualità, che accetterà ma che lo porterà anche all’arresto e a una quasi condanna a morte nel 1937. Combatte contro l’amore incestuoso verso sua sorella Una, dal quale verrà separato nel pieno dell’adolescenza, per volere della madre e del suo nuovo compagno francese (che odierà sempre, la madre per aver lasciato andare troppo facilmente il padre, il compagno francese per averne preso il posto).

le benevole jonathan littell

Combatte contro la sua fiducia incondizionata al nazionalsocialismo e al suo leader, nonostante i conati e gli incubi che lo accompagneranno per tutta l’esistenza. Combatte anche e soprattutto con la convinzione di non essere un assassino, smentita dai delitti compiuti sia sui prigionieri sia su amici e familiari.
I suoi compiti da redattore di rapporti per i commando SS, lo porteranno nei più importanti e tristemente famosi campi di battaglia e di concentramento. Ucraina, Caucaso, Stalingrado e poi il ritorno in patria dove verrà riassegnato da Himmler in persona alla gestione dei piani alimentari dei detenuti nei campi di concentramento.

E quindi: Auschwitz, dove incontrerà il famoso dottor Mengele (quello dei folli esperimenti genetici); Lublino, dove incontrerà Globocnik, simpaticamente soprannominato il boia di Lublino, che oltre ai crimini sui detenuti del campo aveva trasformato la città in una Sodoma moderna; Buchenwald, uno dei campi più terribili, perché gestito da Koch e sua moglie, due soggetti che furono addirittura incriminati dagli stessi nazisti per gli orrori e la corruzione creata nel campo. Per poi fare anche la simpatica conoscenza di Hans Frank, governatore della Polonia occupata, altro soggetto allegro, che voleva creare uno zoo con pochi esemplari scelti delle razze che sarebbero state ormai sterminate nei campi di sterminio; e creerà una bella amicizia col famoso Adolf Eichmann – si, quello del processo a Gerusalemme nel ’61, quello della Banalità del Male di Arendt – che solo per ricordare una delle sue gesta eroiche, spedì, contro le proteste di Aue, un gruppo di cinquantamila tra internati nei campi e lavoratori bellici da Budapest a Vienna a piedi, in pieno inverno, senza provviste e coperte, risultato: morti praticamente tutti. Fino alla conoscenza suprema del Dio del nazismo Adolf Hitler, tre giorni prima del suicidio, che gli consegnerà la croce d’oro nel suo bunker segreto di Berlino e scatenerà la follia finale di Aue.

Stalingrado 15 09 1942

Le descrizioni sono sempre minuziose, Littell non ha paura che i lettori si impressionino e se avete intenzione di intraprendere questa lettura preparate i vostri muscoli facciali a espressioni di disgusto e orrenda incredulità. Vi lascio qui un esempio tratto dalla visita a una fabbrica bellica di Aue:

Si alzarono per venirsi a mettere sull’attenti, un’orda formicolante di detenuti malconci, per lo più nudi, certi con le gambe ancora sporche di escrementi […] Dei grandi fusti metallici servivano da latrine; quasi traboccavano di un liquido appiccicoso, giallo, verde e bruno che inondava la fabbrica di fetore. Un assistente di Speer (ministro degli armamenti e della produzione bellica del Reich), vedendo questo quadro disarmante, esclamò: «Ma è l’inferno di Dante».

È un libro sconvolgente, esaltante, che si divora, nonostante le sue novecento pagine. La scrittura non ha pecche, ti coinvolge nella follia nazista e ti fa dubitare con quali occhi hai scelto di guardare la storia. Concludo con la frase pronunciata da un ebreo russo, professore universitario a Pietroburgo, che mentre aspettava, con in collo suo figlio di due anni, il treno che li avrebbe portati alla morte, si rivolse ad Aue con quella che suona essere la più marziale tra le sentenze:

«Volevo semplicemente augurarle di sopravvivere a questa guerra per risvegliarsi fra vent’anni, ogni notte, urlando. Spero che lei non riesca a guardare i suoi figli senza vedere i nostri che ha assassinato».

 


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