Defilato dal costante fluire del turismo veneziano, presso Campo San Beneto risplende uno tra i più illustri palazzi nobiliari della città lagunare, ad oggi noto come Palazzo Fortuny.
Fatto costruire per iniziativa di Benedetto Pesaro[1] a partire dalla prima metà del 1400, il Palazzo è noto – oltre che per la sua storia secolare – per essere stato residenza e atelier di Mariano Fortuny Madrazo[2] il genio artistico che a partire dal 1907 utilizzò la struttura per la creazione e la stampa di abiti e tessuti in seta e velluto.
Dopo la sua morte il palazzo fu donato al Comune di Venezia per essere «utilizzato perpetuamente come centro di cultura in rapporto con l’arte» e tutt’ora è teatro di attività espositive dedicate alle arti visive nel rispetto di ciò che esso rappresentò per il suo proprietario. In questo contesto dove tutto è un piacevole rimando alla storia, all’arte e alla tradizione, viene inaugurata – tra i fermenti della Biennale di Venezia 2017 – Intuition, mostra attiva fino al prossimo 26 novembre.
Curata dalla direttrice di Palazzo Fortuny Daniela Ferretti e Axel Vervoordt – uno tra i collezionisti più noti dell’epoca attuale – l’esposizione è il sesto e forse ultimo appuntamento che consolida il rapporto tra la Axel & May Vervoordt Foundation e la Fondazione Musei Civici di Venezia.
Dopo aver indagato il tempo, lo spazio, la percezione e la proporzione con Proportio (2015), Tàpies. Lo sguardo dell’artista (2013) e TRA (2011) – ultime tre esposizioni – si è deciso di tornare all’origine della coscienza.
Intuition infatti “si pone come obiettivo l’indagine dei tanti e diversi modi in cui l’intuizione ha plasmato l’arte, in aree geografiche, culture e generazioni diverse” (fonte). Volendo seguire la definizione che ne ha dato lo stesso Axel Vervoordt, l’intuizione può essere definita come una sorta di sensazione che si manifesta in maniera del tutto libera e in perfetta comunione con il cosmo.
È da qui, da questa piccola presa di coscienza sul genio artistico e la sua capacità di connettersi alle profonde verità della vita, che inizia un fantastico percorso espositivo.
Al piano terra testimonianze di epoca neolitica e delle civiltà precolombiane dialogano con quella forma tribale caratteristica delle tele di Jean Michel Basquiat. L’antico trova la sua rinascita attraverso installazioni multimediali della nostra epoca più recente, dove anche una piccola statua di Sant’Anna con la Vergine Maria del 1500 rivive la sua immanenza accanto alla grandiosa opera White Dark VIII di Anish Kapoor.
Non manca nemmeno l’ambito performativo emblematicamente rappresentato dall’opera di Marina Abramovic, presentata ai visitatori con un lavoro intitolato Standing Structures for Human Use e destinato a riconnettere l’uomo con il mondo naturale.
Il grande salone al piano nobile interamente ricoperto dalle preziose stoffe di Fortuny, ospita nella penombra un’ incredibile varietà di opere: esse trovano posto appese alle pareti, accanto a mobili e credenze antiche, sopra ai divani posti alle estremità del salone, quasi fosse un invito a sedersi e perdersi nell’ormai sottovalutato atto di contemplare la Bellezza.
È un viaggio che spazia tra i secoli: Giacometti, Boccioni, Medardo Rosso, Canova, Braque, Kandinsky, Mirò, De Chirico, Duchamp, Klee, Mark Tobey, Fontana, Courbet, Munch, Man Ray, Picasso, Burri, Klein sono solo alcuni dei tanti artisti che il nostro occhio incontra.
Grande centralità senza dubbio è data al Surrealismo proprio per la sua indagine puntale nei confronti dell’inconscio, ma non solo: i più esperti riconosceranno anche altri gruppi e correnti del Novecento come il gruppo Zero, i Cobra, lo Spazialismo, il Raggismo e i Gutai.
Nessuna esclusione per i più contemporanei proprio perché Palazzo Fortuny, prima ancora di essere una casa o un museo, è stato uno studio e un laboratorio, quindi accogliere l’attività di nuovi artisti è altrettanto un modo per continuare a rendere omaggio a questi spazi. Troviamo tra i tanti Alberto Garutti, Nicola Martini, Kurt Ralske e Giulio D’Alessio. Tutti contribuiscono a questo dialogo corale.
Il percorso espositivo si chiude all’ultimo piano dove il visitatore è invitato a sedersi attorno ad una grande tavola ellittica per modellare sfere di argilla circondato da una performance sonora. È anch’essa un’opera o meglio un’installazione partecipativa ideata da Kimsooja ed intitolata Archive of Mind. Il momento meditativo di ciascun visitatore viene congelato per sempre nelle sfere di argilla finite.
Nessuna spiegazione quindi, nessun indizio su cosa ricavare o su quali fili muovere per tessere le proprie conclusioni. A ciascun individuo il compito di individuare le possibili connessioni, sulla scia del verbo latino tueri “guardare, vedere” che unito a quel banale In assume il prezioso significato di “guardare dentro, contemplare”.
L’intuizione geniale di vivere l’arte nel suo continuum senza etichette, senza mercificazioni.