Avvertenza:
Nelle poche righe che seguono mi occuperò solo superficialmente di un paio di soggetti religiosi che hanno totalmente (o quasi) dominato la scena artistica italiana tra la fine del Medioevo e il Rinascimento maturo, entrambi con al centro una figura che i frequentatori dei musei storici o delle mostre dedicate ai secoli sommariamente indicati non possono fare a meno di incontrare e ammirare, magari dislocate in più sale, affisse alle pareti del nuovo o vecchio allestimento, magari (se di formati ridotti) imbalsamate all’interno di teche traslucide e suggestivamente illuminate.
Sto riferendomi alla Madre di Cristo, la Madre di Dio che, soggetto religioso immensamente amato, è protagonista tutto sommato più del Figlio, e decisamente più del Padre, di una valanga di affreschi, pale d’altare, polittici, paliotti e mosaici, ovvero una folla di documenti artistici o meglio opere d’arte da riempire (come di fatto accade) decine e decine di musei.
Molto spesso è raffigurata al vertice del suo potere, sia come Madre del divino, che come nostra Regina, cioè in Maestà, su di un trono non povero, certo molto impreziosito secondo il gusto del tempo in cui operò il suo creatore, circondata da una manciata di santi o, nei casi più antichi, da diversi angeli, spesso divisi in gerarchie. Di questi non sdegna la conversazione.
Sparuti riferimenti:
Sostanzialmente le Maestà e le Sacre Conversazioni occupano un ruolo fondamentale all’interno dello spazio religioso, dato dall’edificio ecclesiastico, in quanto collocate proprio sopra l’altare, cioè in una posizione altamente sottolineata sia da un punto di vista fisico (noi, novelli visitatori, entrando ci spostiamo verso l’altare, meta del nostro cammino) che simbolico, poiché, tra l’altro, è proprio in quei pochi metri che si consuma il mistero dell’eucarestia durante le celebrazioni, fulcro del Sacro.
Una di queste, tra le più famose, è la Madonna Rucellai di Duccio di Buonisegna, pala di notevolissime dimensioni voluta nel 1285 dalla compagnia dei Laudesi di S. Maria Novella, a Firenze. Il fondo, come in tutte le opere dell’epoca, scompare soffuso nell’oro, realizzato in foglia mentre la Madonna quasi scivola dal trono goticheggiante; il suo corpo è appena accennato sotto la veste, vezzosamente arricciata in più punti e impreziosita nell’orlo. Il Sacro Bimbo, adulto, è benedicente; lo spazio, ambiguo, è ancora lontano dalla realtà di Giotto.
Il trono resta basso in questo caso mentre in un’altra pala d’altare, di molto successiva, questo si alza sempre più dalla quota di calpestio: la Pala di San Zeno di Andrea Mantegna. Il nome dell’opera deriva dal luogo in cui e per il quale essa è stata eseguita, ovvero la Basilica di San Zeno a Verona.
Ormai siamo dentro gli anni del Rinascimento quattrocentesco, le regole della prospettiva di Brunelleschi sono conosciute e usate da moltissimi artisti: il trono si trova all’interno di un’aula quadrangolare retta da pilastri e decorata da bassorilievi all’antica e da ghirlande di frutta. Tutto è rigorosamente simbolico, come ad esempio l’uovo di struzzo che è sospeso proprio sopra la testa della Regina dei Cieli. Diversi santi, con i loro attributi, circondano la Maestà che, bionda, regge un bambino davvero molto più verisimile del precedente citato. Ma ciò che più colpisce di questa pala d’altare è il modo in cui vengono uniti gli spazi: non solo lo spazio della rappresentazione è unico, ma lo sono pure quello del supporto ligneo (tramite le colonne in primo piano) e di conseguenza il nostro.
Così non accade nella successiva Pala di Castelfranco di Giorgione, altra opera capitale non tanto per l’interpretazione simbolica delle figure e degli arredi, quanto per la tecnica pittorica con la quale è svolta. Certo, il trono della Regina in quest’occasione è davvero molto molto molto alto, termine che lega il paesaggio di fondo e l’hortus conclusus in cui si sistemano i santi Liberale e Francesco.
Rispetto alle due precedenti la pala di Giorgione sembra povera, profondamente immersa in quella soffusa aria di luce e colore e di velature che è la tecnica del suo creatore. La Regina sembra, e di fatto è, povera rispetto alle precedenti, ma è ancora più lontana, alta come le precedenti figure di Antonello da Messina.
Sino a qui abbiamo visto solo pale d’altare (ivi compreso il trittico di Mantegna) che presentano una scena frontale, in cui si apre un dialogo, certo molto compunto e rispettoso nei confronti della Vergine, tra lo spettatore, il fedele, e la Madre di Dio, dove per intermediari troviamo appunto i Santi, nostri protettori. Si tratta dunque più che di Maestà, di Sacre Conversazioni, soggetto sempre più apprezzato e dunque richiesto lungo il XV secolo.
Una prospettiva del tutto diversa del sacro evento ci concede in realtà Tiziano che, nella Pala Pesaro, ci lascia scorgere la Maestà da destra; possiamo ammirare la vastità e l’altezza del trono, la veste semplice ma regale di Maria, il numeroso corteo che si stende ai suoi piedi. Di fatto la Pala Pesaro, ancora nella chiesa di Santa Maria Gloriosa dei Frari non si trova sull’altare principale (occupato da un’altra famosissima opera del Vecellio) ma su di uno secondario dedicato appunto alla famiglia Pesaro.
Breve Conclusione:
Resta ancora oggi impossibile conoscere e dunque comprendere a fondo la nascita della Pala d’Altare come oggetto artistico e di conseguenza l’esatta funzione che questa probabilmente esplicitava all’interno delle cerimonie alto medievali. Sicuramente si è avuta un’evoluzione sia del formato che nei soggetti ivi rappresentati: la Maestà propriamente detta è più un soggetto che pertiene ai secoli medievali, alla figura della Madonna come icona e come strumento pregno di significato da portare anche in processione per le strade dei borghi; la Sacra Conversazione è l’apertura al dialogo con il Divino come pure il riconoscimento di una sua sempre più grande distanza dagli affari terreni.
In copertina: Simone Martini, Maestà del Palazzo Pubblico di Siena, 1315