È una città di quelle che ti prendono alle spalle, ti aggrediscono e ti lasciano lì, solo, pieno di dubbi e con una grande voglia di vivere nel cuore. Nera d’autunno, scintillante in estate. Istanbul. Oggi appare forse meno malinconica ai turisti, abbacinato dai minareti, dal sole a distesa su case e insegne e cose, palazzi e gente; ma è solo un’impressione. Dietro i vetri brillanti si nasconde un’altra Istanbul, una seconda e più antica, che oggi vediamo nelle giornate di pioggia, quando i pescatori ammainano le reti, e i bambini giocano nelle pozze d’acqua.
Per trovare questa seconda Istanbul bisogna passare per il mercato del pesce, a Eminönü, verso sera, quando l’odore si spande per il corno d’oro. Una città su due rive, collegata da un enorme ponte, da cui si vedono passare i battelli; di là, è ancora Stanbul, la Istanbul asiatica, più nuova e popolare, più simile all’entroterra turco. Per capirla, bisogna perdersi nelle vie, la notte, e abbandonarsi, lasciarsi fagocitare dalla città.
Orhan Pamuk è nato ad Istanbul. Ha vissuto sempre lì, sempre nella stessa casa. Ma non si è mai stancato di quel paesaggio. Ci racconta le vie, i vaporetti all’orizzonte e le storie con la passione di un attento viaggiatore, con la forza di chi ha combattuto per arrivare lì, e ogni metro sembra una conquista. Allo stesso tempo ha gli occhi di un vecchio custode, di un uomo consapevole di essere il solo a conoscere le vecchie cartine della città, a ricordarne la storia, e il palpito, e tutti i cambiamenti che hanno portato l’antica Costantinopoli ad essere una metropoli moderna.
Mi chiedo cosa stia pensando adesso, Pamuk, di questa Turchia divisa e in lotta, della Turchia divisa tra fondamentalismo religioso e kemalismo, e ancora, nonostante tutto, in pugno al potere dei Recep Tayyip Erdoğan, forse l’uomo più incisivo nella storia di questo paese dai tempi di Atatürk. E di cosa pensa dell’Istanbul di oggi, sempre più ostaggio di un destino non suo. «Ho 63 anni — dice, in un’intervista di un po’ di tempo fa, a Il Sole 24 Ore — e i cambiamenti che sono occorsi nei primi cinquant’anni della mia vita sono minori di quelli avvenuti negli ultimi 13 anni».
Istanbul cambia d’abito. Come una grande attrice. Ma cos’era Istanbul? Qual è la sua anima? Pamuk, con il suo libro Istanbul: i ricordi e la città (Einaudi, 2009) ce lo rivela passo per passo, portandoci nelle sue vie, osservandola dalla finestra, raccontandoci il suo passato. E raccontandoci la città, scopriamo l’uomo Pamuk, scopriamo che ha voluto scrivere un autoritratto in forma di città; più racconta se stesso, e più finisce a raccontarci della città, e viceversa. E mi ha fatto pensare a Milano, ad un’altra città che mi sento addosso, e che più vado lontano, più sento di portarmi dietro, e di sentirla, anche quando penso che non mi rispecchi più.
Anche Pamuk, oggi, non sente più questa rispondenza, questa simbiosi. Eppure se proviamo a seguire le sue orme, lontano dal caos imperante, lontano dagli ovattati quartieri turistici e lontano anche dai grandi grattacieli a nord, simbolo di novità e modernizzazione, scopriamo i suoi sogni, la sua infanzia, le idee strane che aveva da piccolo e la sua vita in quella città carica di hüzün, variante turca della saudade (e ci rendiamo conto che i poli opposti del mediterraneo si abbracciano, si toccano, che esiste una koiné mediterranea, e in fondo non siamo così diversi), la malinconia che si consuma in un ricordo, un ricordo che svanisce nel nulla, di un tempo che forse non si è mai vissuto, di un’altra vita.
Un ricordo mischiato ad una forte, irresistibile voglia di continuare a vivere, di abbracciare la grande anima del mondo. E Istanbul è carica di questa anima. Forse, per capire questa Turchia lacerata e sempre instabile, dovremmo cercare nelle pagine di Pamuk. Ci troveremo anche noi stessi, le cose cui siamo affezionati, a partire da quello che vediamo dalla nostra finestra di casa.
Orhan Pamuk, Premio Nobel per la Letteratura nel 2006, è un romanziere turco. Tra i suoi saggi, Istanbul: i ricordi e la città è il più celebre.