Aurangzeb, il regno della serpe bianca

Vasily-Vereshchagin, Taj Mahal. Il Taj Mahal fu fatto costruire da Shah Jahan, padre di Aurangzeb

Accadde tutto in un batter di ciglia. I due elefanti che i servi dell’imperatore avevano aizzato l’uno contro l’altro per il divertimento del loro signore, quel giorno proprio non volevano saperne di collaborare: di fronte a uno stuolo di cortigiani ammutoliti, uno dei due fece dietrofront e tentò la fuga, mentre l’altro si lanciava in una furiosa carica contro i quattro figli del sovrano che si stavano godendo lo spettacolo in sella ai loro superbi cavalli arabi. Tre dei principi fecero appena in tempo a spronare il loro destriero e mettersi in salvo.

Il quarto, Aurangzeb, restò fermo dov’era.

Con una mano stretta sulle redini mantenne al suo posto il cavallo – ch’era più furbo di lui e stava già per battere in ritirata –, mentre con l’altra scagliava in mezzo alla fronte del pachiderma la sua lancia cerimoniale. Centrò il bersaglio. In un estremo sussulto di collera l’elefante schiantò con un colpo di zanna il cavallo del principe, che però riuscì a salvarsi con un’aggraziata piroetta.

La folla, fino a quel momento impietrita, esplose in un urlo di trionfo, mentre l’imperatore scendeva in preda alla più viva agitazione le scale del terrazzo da cui aveva assistito alla scena. Itimad Khan, uno dei più affezionati servitori del padishah, corse incontro al principe che a passi lenti e perfettamente misurati andava a mostrarsi all’ansioso genitore. “Che fai?”, gli gridò sconvolto, “Cammini così lento, e l’imperatore è in uno stato terribile!” La risposta del principe gli gelò le parole in bocca: “Se l’elefante fosse ancora qui a corrermi dietro, camminerei più veloce. Ora non c’è fretta.”

L’imperatore raggiunse il figlio, lo abbracciò ed esclamò col cuore in gola: “Figlio mio, grazie a Dio tutto è finito bene! Se la cosa fosse andata diversamente, ti saresti coperto di disonore!” “Se fosse andata diversamente”, replicò Aurangzeb con un inchino, “non sarebbe stato affatto un disonore. Il disonore sta tutto in ciò che hanno fatto i miei fratelli[1].”

Edwin Lord Weeks, Il ritorno della corte imperiale, 1886
Edwin Lord Weeks, Il ritorno della corte imperiale, 1886

Così parlò Muhi-ud-din Muhammad Aurangzeb, “l’ornamento del trono”. Che all’epoca, il 28 maggio del 1633, aveva quattordici anni.

Nel settembre del 1657 Shah Jahan, il “signore del mondo”, l’imperatore dell’India, il quinto glorioso rappresentante della dinastia dei Moghul cadde gravemente ammalato. I suoi ministri s’ingegnarono in mille modi per impedire che la notizia trapelasse, ma fu tutto vano: in poco tempo, la vox populi diede già il sovrano per spacciato. In circostanze normali questo avrebbe significato il passaggio del potere assoluto nelle mani dell’erede al trono, o di un reggente temporaneo; peccato che in questo caso le circostanze fossero tutt’altro che normali.

Shah Jahan aveva quattro figli, ma anche se la cosa non era affatto inusuale per un imperatore Moghul – il cui harem, anche in tempo di magra, straripava comunque di mogli e concubine –, quella era la prima volta nella storia della dinastia in cui tutti e quattro bruciassero di tanta ambizione e, soprattutto, disponessero di tanti mezzi per assecondarla. Ciascuno di essi era ricco, era potente e disponeva di un proprio esercito personale, oltre che di una riserva pressoché illimitata di odio per i propri consanguinei.

Nonostante Shah Jahan avesse più volte messo in chiaro che, al momento della sua dipartita, sarebbe stato il figlio maggiore a cingere il diadema dei Moghul, il fatto che ora la malattia del padishah lo costringesse al silenzio tra le coltri del suo letto rendeva il suo desiderio lettera morta. Le quattro piccole serpi avevano passato anni su anni a disporre i loro pezzi sulla scacchiera nell’attesa di un momento come questo. Ora che il giudice della gara pareva sul punto di darle l’avvio con un colpo di falce, la partita poteva cominciare.

William Purser, Il palazzo di Aurangzeb, 1830
William Purser, Il palazzo di Aurangzeb, 1830

La guerra divampò all’istante, e consumò il nord della penisola indiana per due anni che parvero due secoli. A nulla valse la notizia che Shah Jahan, dopo una settimana di atroci spasmi, si fosse ristabilito e si sentisse pronto a riprendere in mano le redini dell’impero: agli occhi dei suoi stessi figli, il “signore del mondo” non era più che un povero vecchio. L’imperatore cercò invano di offrire il suo appoggio al figlio primogenito, Dara Shikoh, ch’era anche il suo favorito, e invano cercò con ripetuti appelli di riportare alla ragione gli altri tre. Niccolò Manucci, un avventuriero veneziano che assistette all’intero corso della guerra dalle retrovie dell’esercito di Dara, ci mise poco a capire come funzionavano le cose in India: “nelle lotte di successione dei Moghul”, scrisse con lucido realismo, “bisogna che uno vinca e che gli altri vengano uccisi[2].” E non sbagliava. Il 5 giugno 1659, quando alla fine il principe Aurangzeb salì sul trono imperiale, lo fece scavalcando con naturalezza il cadavere dei suoi fratelli.

Aurangzeb era il figlio terzogenito dell’imperatore, ma questa non era l’unica ragione per cui, se le cose avessero seguito il loro corso, non avrebbe visto il trono neanche col cannocchiale. In una corte come quella Moghul, una corte musulmana impiantata di forza duecento anni prima in un paese a schiacciante maggioranza induista, una corte tradizionalmente aperta e cosmopolita, il rigore di Aurangzeb aveva sempre preoccupato suo padre. Sin da piccolo aveva fatto proprio il tradizionalismo di un Islam di scuola sunnita, che poco concedeva al misticheggiante sufismo di cui erano invece impregnati i suoi più tolleranti fratelli. Il principe consacrava sei ore del giorno alla preghiera e tutte le altre a uno studio intensivo dell’arte militare, di cui all’età di vent’anni era già consumato maestro. Non beveva, non fumava, frequentava l’harem in modo svogliato. Odiava la musica e, da buon musulmano, storceva il naso di fronte alle arti figurative.

Anche il suo aspetto fisico era una nota stonata all’interno della corte: mentre suo padre e i suoi fratelli annegavano nel lusso, Aurangzeb girava sempre cinto d’una semplice veste bianca, che esaltava in modo spettrale il naturale pallore del suo viso. Il padre infatti, cui pareva di scorgere un non so che d’inquietante dietro lo sguardo impassibile del figlio, lo chiamava “la serpe bianca”[3].

Edwin Lord Weeks, La chiatta del maharaja di Benares, 1883
Edwin Lord Weeks, La chiatta del maharaja di Benares, 1883

L’ascesa al trono di Aurangzeb fece capire anche ai più sprovveduti che la pacchia era finita: la cerimonia della sua incoronazione, come scrisse il biografo Hans-Georg Behr, fu effettivamente “l’ultimo barlume di splendore della corte Moghul.[4]” Il nuovo padishah scelse per sé il nome di Alamgir, “conquistatore dell’universo”, con cui nessuno lo chiamò mai[5], ma che serviva a ricordare a tutti di che pasta fosse fatto.

Reintrodusse la jizya, una tassa che gravava esclusivamente sui non musulmani e la cui riscossione, in passato, era stata condotta con scarsissima regolarità e convinzione[6]. Il fatto che in India i musulmani fossero ancora un pugno d’uomini rispetto alla maggioranza indù, evidentemente agli occhi di Aurangzeb non costituiva un problema: il giorno in cui settecento infedeli si presentarono davanti alla reggia per protestare contro il provvedimento imperiale, il padishah li fece calpestare dai suoi elefanti.

Sin dai primi giorni del suo governo emerse con chiarezza il tratto dominante del carattere dell’imperatore, cioè la totale sottomissione alla legge divina e a quella umana – che di quella divina costituiva il riflesso. Contrariamente ai suoi predecessori, che in India se l’erano scialata da padroni di casa stando però sempre attenti a non urtare troppo la sensibilità degli inquilini, Aurangzeb si sentiva più un custode del palazzo.

Edwin Lord Weeks, Persone nel cortile di una moschea, 1893-1895
Edwin Lord Weeks, Persone nel cortile di una moschea, 1893-1895

La sua osservanza della legge fu sempre precisa e maniacale, perché su di essa si fondava la sopravvivenza dell’impero che Allah gli aveva affidato perché nel Suo nome lo facesse prosperare. La jizya non fu reintrodotta per un capriccio dell’imperatore, ma perché il Corano la prescriveva, e la sua mancata riscossione costituiva un’infrazione della legge. “Se una singola regola viene infranta, va in pezzi tutto il regolamento”, ripeteva spesso: l’intera, lunghissima vita di Aurangzeb non fu che una continua lotta per l’applicazione di questo principio.

Di buono, nella filosofia del padishah, c’era che per la prima volta sul trono dei Moghul sedeva qualcuno che fosse dotato di un vero senso dello Stato. A differenza dei suoi predecessori, che avevano attinto a piene mani dalle casse del Tesoro imperiale trattandole come un gigantesco portafogli, tutte le spese di Aurangzeb erano finalizzate a trasferire continuamente la corte da una parte all’altra del suo vastissimo impero, per garantirne il buon funzionamento. Anche in questo caso, tuttavia, c’era un problema, perché secondo Aurangzeb il buon funzionamento dell’impero doveva inevitabilmente passare attraverso la sua completa sottomissione all’Islam.

L’imperatore spendeva fior di quattrini per elemosine e opere di bene, ma va da sé che da queste opere di bene i non musulmani fossero esclusi. Per assicurare ai suoi sudditi un completo benessere spirituale, Aurangzeb fece radere al suolo centinaia di templi indù, passando a fil di spada chiunque tentasse di opporsi ai suoi comandi: non impose mai agli infedeli di convertirsi, ma fece di tutto perché quei poveracci finissero per considerare la conversione l’unica strada possibile. Rimetteva questa decisione alla coscienza del singolo: “Che m’importa della fede di una persona?”, scrisse una volta in una lettera, Che Gesù segua la sua fede, e che Mosè segua la sua!”[7] Il fatto però che il suo impero, l’impero che Allah gli aveva dato, sopportasse al suo interno la presenza di templi pagani cessava di essere un capriccio privato: diventava immediatamente un oltraggio all’autorità statale, alla legge divina e, nella prospettiva di Aurangzeb, una macchia nella coscienza dell’imperatore.

La politica estera di Aurangzeb non fu più tranquilla, e diede pienamente senso al suo epiteto di “conquistatore dell’universo”. Con tenacia infaticabile mosse all’attacco di tutti quei regni indiani che i suoi predecessori avevano lasciato indisturbati, contentandosi di riceverne un omaggio formale e una pioggia di tributi volti a rimpinguare le casse statali. Molti storici rimproverano ad Aurangzeb una scarsa lungimiranza e una certa incapacità gestionale nell’aver distrutto un simile equilibrio interno, ma a questa obiezione lui avrebbe sicuramente risposto biascicando qualcosa sull’inutilità dei tributi versati dagli infedeli.

Edwin Lord Weeks, Sul fiume di Benares 1883
Edwin Lord Weeks, Sul fiume di Benares 1883

Il suo coraggio in battaglia era leggendario. Ancor prima di salire sul trono imperiale, quando non aveva più di trent’anni, mentre era impegnato in una battaglia contro le armate del re di Bukhara si era accorto che era scoccata l’ora prevista per la preghiera quotidiana. In tutta calma era sceso dal proprio elefante in mezzo alle grida e agli improperi lanciati dai suoi ufficiali, e dopo aver steso in direzione della Mecca il tappeto da preghiera si era prostrato in adorazione ad occhi chiusi, incurante di ciò che gli accadeva intorno. “Combattere contro un uomo del genere è come corteggiare la propria morte!”, aveva esclamato il re di Bukhara, e aveva dato ordine di sospendere la battaglia[8].

Col tempo e con l’avanzare dell’età Aurangzeb aveva cominciato a lasciarsi alle spalle simili imprese, ma non per questo rinunciava a prendere parte attiva alla guerra in qualità di stratega e, soprattutto, di autentico maestro dell’inganno. Sotto la sua guida l’impero Moghul raggiunse la sua massima espansione, annettendosi i due sultanati meridionali di Bijapur e Golconda che fino a quel momento avevano resistito ad ogni tentativo di invasione. Temprava i suoi uomini con una disciplina ferrea, pretendendola da se stesso per primo: né una ferita, né una malattia riuscirono mai a fargli interrompere una marcia.

Esemplare a questo proposito fu un episodio che si verificò dopo la conquista di Bijapur, l’ultimo baluardo che si opponeva all’espansione dell’impero. In quell’occasione, il primo ministro aveva rivolto una petizione al sovrano facendosi portavoce della stanchezza dell’esercito: “[…] Due grandi regni sono stati conquistati. È ora buona politica che gli stendardi imperiali facciano ritorno verso l’Hindustan, terra di Paradiso, così che il mondo possa sapere che l’Imperatore non ha lasciato più nulla d’incompiuto.” Aurangzeb non fu d’accordo, e rispedì la petizione al mittente con l’aggiunta di questa annotazione: “[…] Se il tuo desiderio è di far sì che gli uomini sappiano che non c’è più alcun lavoro da fare, sappi che è cosa contraria al vero. Finché in petto mi resterà anche un solo respiro di questa vita mortale, non ci sarà tregua dal lavoro e dalla fatica.[9]

Aurangzeb regnò per quarantotto anni. Il piccolo e cagionevole figlio di Shah Jahan, quello su cui il padre non avrebbe puntato un centesimo, fu in realtà l’ultimo dei Gran Moghul. Dopo di lui, per altri centocinquant’anni, la dinastia si sarebbe trascinata in un lungo e straziante declino in mano a sovrani troppo sfortunati o troppo incapaci per reggerne il peso[10]. Di tutto questo, con la sua naturale propensione al pessimismo, Aurangzeb si rendeva perfettamente conto: lui per primo, nei suoi ultimi anni, capì di aver combattuto per tutta la vita nel tentativo di mettere insieme un impero votato alla distruzione. L’opposizione dei sovrani indù, che bruciavano nei suoi confronti di un odio inveterato, e la crescente potenza dei mercanti inglesi dovevano presto trasformare i suoi timori in realtà.

Edwin Lord Weeks, Il tempio dorato di Amritsar, 1890
Edwin Lord Weeks, Il tempio dorato di Amritsar, 1890

Le sue lettere, che un tempo brillavano di un’autorevolezza che nessuno avrebbe mai messo in discussione, col passare del tempo presero una piega disperata e malinconica. In esse cominciò a riferirsi a se stesso come “questa disgraziata creatura”, dando sfogo a un senso di colpa che, però, altro non era che l’altra faccia della sua bigotteria. “Non so a quale pena sarò condannato,” scriveva al figlio Azam “perché già adesso sono come un vecchio orso tormentato dalle api. La mia vita è già un assaggio dell’inferno.”[11] Più di un cortigiano, nella sua desolazione, lo sentì ripetere spesso un’amara quartina poetica:

Quando avrai novant’anni, del tuo cuore
Mille colpi la pace avran turbata;
E quando ne avrai cento, la tua vita
Sarà solo una morte mascherata[12]

Poco prima di morire, quando redasse il suo testamento, Aurangzeb era un vecchio uomo disperato e solo. Dei suoi figli non si era mai fidato e a più riprese li aveva fatti incarcerare, temendo che potessero riservargli lo stesso trattamento che lui aveva usato contro suo padre e i suoi fratelli. “Non fidarti mai dei tuoi figli,” scriveva al suo erede “e non trattarli mai con familiarità.”[13] Ogni sua speranza era riposta in Dio, sebbene nel suo intimo sentisse di non aver mai fatto abbastanza per compiacerlo. Come estremo gesto di sottomissione, chiese che alla sua morte il suo cadavere fosse sepolto nella nuda terra avvolto in un sudario, senza iscrizioni né lapidi; i soldi da lui guadagnati cucendo vestiti per i bisognosi – un’occupazione cui si era dedicato spesso – erano tutto quel che avrebbe dovuto essere speso per il suo funerale. Quando la morte lo colse, la mattina del 20 febbraio 1707, stava pregando. La “disgraziata creatura” aveva 88 anni.

Così morì Aurangzeb, il santo e il tiranno, una delle figure più controverse della Storia dell’India. L’uomo che, per avvicinarsi al Cielo, fece di tutto per allontanarsi dai sudditi che il Cielo gli aveva affidato.

Federico Franchin
Federico Franchin

Sono nato a Monza nel 1991 e vivo a Milano. Ho una spiccata tendenza a occuparmi di scrittori e musicisti giudicati minori o semisconosciuti, perché seriamente convinto che anche a loro faccia piacere sentir pronunciare il proprio nome, ogni tanto.