Sulla «guerra delle statue» e l’iconoclastia che non c’è

Indro Montanelli Guerra delle statue

Da qualche giorno a questa parte tiene banco su tutti i giornali e telegiornali la cosiddetta «guerra delle statue» (sic!). Dal generale Lee a Churchill, da Cristoforo Colombo a Rhodes, da Leopoldo I a Montanelli sono numerosi gli uomini messi sotto accusa in tutto il mondo per le loro azioni o per ciò che la loro figura significa.

Come sempre accade le semplificazioni abbondano e un tema importante, che riguarda il nostro rapporto con il passato, finisce per essere dato in preda quando va bene a opinionisti farneticanti[1] o bacchettoni piccolo-borghesi dell’ultim’ora[2], quando va male a leghisti, fascisti ed esseri loro pari.

Tuttavia, non sono solo queste le voci che si sono levate contro il movimento “abolizionista”. Più insidiose sono due diverse tipologie di critica.

La prima è quella di chi accusa i manifestanti di compiere un errore di prospettiva”, lo stesso che venne ben sintetizzato da Gramsci in questo passo dei Quaderni:

Giudicare tutto il passato filosofico come un delirio e una follia non è solo un errore di antistoricismo, perché contiene la pretesa anacronistica che nel passato si dovesse pensare come oggi, ma è un vero e proprio residuo di metafisica perché suppone un pensiero dogmatico valido in tutti i tempi e in tutti i paesi, alla cui stregua si giudica tutto il passato[3].

Insomma, secondo questi critici, i manifestanti sarebbero di fatto dei «metafisici» antistorici, che ritengono esista un pensiero valido in tutte le epoche (e che curiosamente coincide con quello antirazzista, antisessista, ecc.).

La seconda obiezione è di chi rileva come l’iconoclastia non sia mai un modo per rielaborare il passato e che quindi l’abbattimento delle statue e più in generale dei monumenti non vada mai approvato.

Lo dico in anticipo per chiarezza: trovo queste critiche entrambe sbagliate, sebbene per ragioni diverse.

Tuttavia rispetto alle volgarità di un Pierluigi Battista o del “borghese piccolo piccolo” intervistato dal TGR Lombardia, questi sono ragionamenti e meritano una riflessione e una risposta ponderata.

Rhodes Must Fall
La statua del colonialista Cecil Rhodes (credits: New African Magazine)

Personalmente non mi anima nessuna volontà conservatrice per partito preso. Le statue e più in generale i monumenti sono prodotti umani, gli esseri umani li creano ed è legittimo che al limite arrivino a distruggerli. Eppure… eppure nessuno sosterrebbe che la distruzione dei Buddha ad opera dei talebani sia stata un’azione legittima. Perché?

Facciamo qualche passo indietro e prendiamola alla larga.

Era il V secolo avanti Cristo quando un aristocratico di Alicarnasso compose un’opera che oggi tutti noi ricordiamo con il nome di Storie. Era Erodoto, il primo storico dell’Occidente. Il suo scopo, dichiarato già nelle prime righe del testo, era di impedire che «delle cose avvenute da parte degli uomini […] svanisca col tempo il ricordo; [e che] di opere grandi e meravigliose, compiute sia da Elleni sia da Barbari, si oscuri la gloria[4]».

Ricordo. Il termine centrale in questo manifesto d’intenti è proprio questo. La storia ricorda e questo la differenzia radicalmente dal mito e dalla leggenda, che invece creano. Per questo Erodoto è il primo storico: perché – con tutti gli errori e le incertezze dei geniali apripista – Erodoto non inventa, non crea ex novo. Egli tramanda la memoria, trasmette il ricordo.

In questa contrapposizione tra mito e storia, per come l’ho detta qui, sembrerebbe che il mito abbia una funzione attiva e la storia viceversa una funzione passiva. Non è così.

Lo storico non si limita ad accogliere i resti del passato. Egli passa al setaccio testimonianze e materiali, documenti e tracce; egli seleziona, sceglie, scarta, taglia, cuce. Lo storico ricerca (e non a caso il titolo dell’opera di Erodoto è alla lettera “ricerche”[5]).

Cosa ricerca? L’essere umano nel tempo. «Il bravo storico – scriveva Marc Bloch – somiglia all’orco della fiaba. Egli sa che là dove fiuta la carne umana, là è la sua preda[6]». Volgendosi alle tracce del passato[7] e cercando, sulla base di queste tracce, di comprendere l’umanità nel divenire.

Nel fare questo lo storico «risponde all’interesse del presente»[8]. Risponde agli uomini viventi, contemporanei suoi. Risponde a se stesso, che orienta la sua ricerca a partire da domande e concetti[9] che può elaborare solo nel suo presente. Risponde all’epoca in cui vive, con i suoi problemi e le sue tribolazioni.

Statua di Saddam
Il 9 aprile del 2003 veniva abbattuta la statua di Saddam Hussein a Baghdad.

Non solo. Implicitamente o meno, la sua opera avrà delle conseguenze sul futuro. Contribuirà in un modo o nell’altro a dare forma alla mentalità delle persone che vi entreranno in contatto, ne plasmerà le convinzioni, ne indirizzerà le azioni. Non che di questo sia responsabile lo storico. E tuttavia, come tutte le azioni, anche la sua opera «siccome trasposta in esteriore esserci [siccome cade in un contesto dato] … ha conseguenze molteplici[10][/tooltip».

Ma perché la storia è tanto importante per il nostro discorso sulle statue?

Perché i monumenti, tutti i monumenti!, condividono con l’opera storica la stessa essenza. Inseriti in un contesto dato – contesto sociale, prima ancora che spaziale e temporale –, i monumenti rappresentano dei soggetti scelti sulla base dell’interesse presente, così da sottrarli all’oblio, perpetuandone il ricordo.

E così facendo celebrano, commemorano, in certi casi criticano. Insomma: rievocano ciò che è stato e mediano il nostro rapporto presente con il passato.

Per questo chi accusa di mancanza di prospettiva storica, paradossalmente, pecca per primo di mancanza di prospettiva storica. Perché dimentica che ogni storia è sempre storia contemporanea e che i manifestanti non se la stanno prendendo con quegli uomini del passato (i Rodhes, i Leopoldo I, ecc.), per chieder loro di pensare in modo diverso da come pensavano. Anche perché è quanto meno difficile visto che sono morti… Né i manifestanti chiedono che si giudichi il passato come follia e delirio.

Chi oggi avanza la proposta di abbattere quelle statue, chiede che oggi, nel 2020, si smetta di celebrare figure che nel passato hanno compiuto o permesso azioni aberranti che vanno condannate come infami. Chiede cioè, attraverso l’attacco a un simbolo, che finalmente si apra un percorso critico nei confronti di una società che si fonda e perpetua l’oppressione, la discriminazione, la violenza strutturale, il razzismo, il sessismo e tutto ciò che di peggio l’essere umano può creare.

Ed è questa, tra l’altro, la ragione che rende comprensibile la volontà di abbattere le statue di Cristoforo Colombo. Indipendentemente dal fatto se egli sia identificabile come responsabile diretto di atrocità, la sua figura – con il Columbus Day e la “retorica patriottarda” da WASP che si è sviluppata in relazione a quel giorno – immediatamente coincide con la dominazione bianca, anglosassone e protestante. Una dominazione che negli USA ha significato sterminio per gli indigeni e schiavitù per i neri: mica rose e fiori!

Guerra delle statue. Cristoforo Colombo Providence
Statua di Cristoforo Colombo a Providence (Credits: Boston Globe)

Questo significa allora – e veniamo alla seconda critica citata in incipit – che ogni processo politico di massa, che in qualche modo mette criticamente in discussione il proprio passato, giustifica un atteggiamento iconoclasta, una distruzione di monumenti, un abbattimento delle opere d’arte? Non è questo dare ragione ai talebani, ai nazisti, ecc.?

No. Come abbiamo detto, il monumento è tale innanzitutto in rapporto al contesto in cui sorge. Un contesto temporale, spaziale, sociale, che determina il significato e il senso del monumento, ne determina la funzione.

Non è la cosa in sé, ma la relazione che l’oggetto ha con il mondo circostante, che rende un monumento di volta in volta una celebrazione, un’anticaglia, un’opera d’arte…

Lo si nota molto bene nel rapporto che abbiamo con i monumenti antichi. Nessuno oggi si sognerebbe di considerare la statua equestre di Marco Aurelio una celebrazione del potere imperiale. Al di fuori del contesto in cui è sorta quella è un’opera d’arte e una testimonianza del passato. In un certo senso si può dire che ha perso la funzione “ideologica” con cui è sorta.

L’iconoclastia non fa questa distinzione e prende la cosa in sé come il problema.

I Buddha fatti saltare dai talebani, i monumenti distrutti dall’ISIS, le opere d’arte bruciate dai nazisti erano tutti immancabilmente cose prese di mira in quanto tali, appiattendo cioè il loro significato storico e artistico sul soggetto specifico che rappresentavano (il Buddha, le religioni pagane del passato…) e così finendo per dare loro un unilaterale e parziale. Un significato dato senza riuscire a comprendere il percorso storico che aveva portato quelle opere a “emanciparsi” dal significato originale con cui erano sorte (principalmente cultuale nel caso dei Buddha e delle opere distrutte dall’ISIS) e a divenire testimonianza storica e insieme artistica. Per riprendere l’esempio di prima, è come se qualcuno in nome della Repubblica pretendesse la distruzione della statua equestre di Marco Aurelio perché filo-imperiale: questa sì sarebbe follia e delirio, per usare le parole di Gramsci. Anzi, sarebbe un atto criminale, come quello compiuto dai talebani ecc. e come tale andrebbe combattuto.

Ma non è certo questo il caso della «guerra delle statue» di questi giorni. Quelle sono statue che sorgono in contesti urbani, associate a volte a nomi di vie o di parchi (è il caso di quella dedicata a Montanelli), con l’unico scopo di celebrare quei personaggi.

Churchill was a Racist
La statua di Wiston Churchill a Londra (credits: skytg24)

Personaggi che come detto sopra non vanno celebrati. Vuoi per le loro gesta (Montanelli in primis), vuoi per le loro funzioni politiche (Churchill, Rodhes, Leopoldo I), vuoi perché ormai irrimediabilmente legati a una storia di soprusi (Colombo).

Non si vuole abbattere quelle statue perché questo urta la sensibilità di qualcuno?

Allora le si risemantizzi. Si muti cioè il contesto in cui sorgono e quindi il significato dell’opera. Le si sposti ad esempio in un museo, con la spiegazione di ciò che fecero in vita quelle persone. Se non le si ritiene valide di avere uno spazio in un museo si prenda spunto da altre esperienze, tipo da Bolzano, città nella quale è da anni attiva un’installazione che proietta, sul bassorilievo di epoca fascista con Mussolini a cavallo, la massima di Hannah Arendt: «Nessuno ha il diritto di obbedire».

Sarebbe ad esempio questa una buona soluzione per la statua di Montanelli: se a quella del giornalista, si aggiungesse affianco la statua di una bambina nera e una targa ben visibile in cui vengono riportate le parole di Montanelli (quando si vantava di aver comprato una bambina di 12 anni, da lui definita «bell’animalino», perché tanto «a dodici anni quelle lì [le bambine africane] erano già donne»), da elogio a un «razzista stupratore» quel monumento si trasformerebbe in un monito contro il razzismo e il sessismo.

Questo urterebbe ancora la sensibilità di qualcuno?

Sì, probabilmente sì. Vorrebbe dire allora aver colto nel segno. Vorrebbe dire essere riusciti a rendere quella statua un po’ bruttina, magari non proprio un’opera d’arte, ma di sicuro un’opera su cui riflettere.

 


In copertina: la statua di Indro Montanelli ai Giardini di Porta Venezia di Milano, dopo un’azione del collettivo Non Una di Meno e dei centri sociali. (credits: Andrea Fasani)

Simone Coletto
Simone Coletto

Nato a Milano, classe 1993, laurea in Filosofia presso l’Università degli Studi di Pavia; lettore e appassionato di politica da sempre, ho avvicinato gli studi filosofici sui banchi del liceo (classico) e da lì ho compreso come questa disciplina dia ad ognuno la possibilità di capire e modificare il mondo.