Dante maestro perpetuo: il Canto XXXII dell’Inferno

Dante canto XXXII

CANTO XXXII

S’io avessi le rime aspre e chiocce,
come si converrebbe al tristo buco
sovra ‘l qual pontan tutte l’altre rocce,

io premerei di mio concetto il suco
più pienamente; ma perch’io non l’abbo,
non sanza tema a dicer mi conduco;

che non è impresa da pigliare a gabbo
discriver fondo a tutto l’universo,
né da lingua che chiami mamma o babbo

ma quelle donne aiutino il mio verso
ch’aiutaro Anfione a chiuder Tebe,
sì che dal fatto il dir non sia diverso.

Oh sovra tutte mal creata plebe
che stai nel luogo onde parlare è duro,
mei foste state qui pecore o zebe![1]

Scrivo e riscrivo questi versi nella vana speranza di imprimerli indelebilmente nella mia mente. Dante Alighieri e la sua Commedia sono studiati da secoli e pagine mirabili di critica letteraria sono state scritte. Eppure per ben che piccola e insignificante lettrice, su questi versi ho voglia di parlare. Sono l’essenza dell’arduo compito di un poeta, di uno scrittore, di un giornalista che abbraccia con serietà e umiltà il suo mestiere.

La ricerca della parola giustamente aspra e dura (aspre e chiocce, come dice Dante) ovvero la parola che non si nasconde, è vera, scarna, un pugno nello stomaco, è il compito assoluto verso cui è chiamato chi s’accinge a scrivere. È questa serietà e ricerca della parola assoluta, che fa dire al grande Poeta «S’io avessi…» «ma io non l’abbo», che è il demone corrosivo di chi con umiltà e impegno si accinge a scrivere, sapendo che lascerà una traccia, il cui «dir non sia diverso» dalla verità.

In questa nostra epoca di mille verità, di tecnologia sbattuta in faccia e di libri lasciati sotto traccia, ecco che la rilettura di un grande vate del passato, aiuta noi a camminare tra le alte rocce dell’informazione, della confusione fumosa dietro cui si spartiscono le nostre vesti, che a nostra volta le strappiamo ad altri che con noi, inconsapevoli vittime, si offrono come carne da macello da barattare ai tavoli delle apparenze.

Che ci aiutino «quelle donne», le Muse, a trovare la parola adatta a chiudere il cerchio, così come a Tebe permisero ad Anfione di smuovere i massi del Citerone, con il suono magico della lira e della sua poesia, per chiudere le mura, che difendevano la città. Noi possiamo soltanto costatare come «mal creata plebe» non sia affatto cambiata e il parlare risulta spesso un dialogo tra sordi. Così come Dante, anche noi preferiamo conversare con le pecore e le capre ovvero con gli animali, piuttosto che con le teste di legno che ci circondano.

Proprio come il nostro Alighieri caracolliamo sulla pagina, sperando di riempirla di parole utili, non superflue o vane, ma crude, aspre così com’è la realtà.

 


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Silvia Leuzzi
Silvia Leuzzi

Ho un diploma magistrale e lavoro come impiegata nella scuola pubblica da oltre trent'anni. Sono sposata con due figli, di cui uno disabile psichico. Sono impegnata per i diritti delle persone disabili, delle donne e sindacali. Scrivo per diletto e ho al mio attivo tre libri e numerosi premi di poesia e narrativa.