«Oh Durendal, valente, così sventurata foste!
Ora che muoio, non posso più avere cura di voi […]
Non v’abbia uomo vile, giacché
V’ha finora tenuto un così buon guerriero
Che mai vi sarà l’uguale in Francia, la santa […]
Oh Durendal, come sei chiara e tersa!
Come splendi e fiammeggi sotto il sole![…]
Per questa spada ho dolore e pena:
preferisco morire piuttosto che vederla cadere in mano ai pagani […]
Oh Durendal, come sei bella e santa!
Non è giusto che dei pagani ti adoprino:
dai cristiani dovete esser servita.
Non vi abbia uomo che commetta codardia![1]»
Sarebbe lecito pensare, scorrendo velocemente i versi sopra riportati, che il prode Rolando, quel prode Rolando[2] caduto eroicamente a Roncisvalle, si stia rivolgendo, sin dalla prima, sospirante invocazione, proprio ad Alda, la donna amata[3]. Supposizione lecita – il nome può dare adito a dubbi certo non paralizzanti – che si rivela in realtà sbagliata. Rolando sta invocando la sua spada, una spada assetata di sangue che rifulge come un fuoco nella tarda ora del crepuscolo.
Probabilmente questa straziante invocazione non sorprende (!) l’accorto lettore.
L’eroe franco per eccellenza è, di fatti, il protagonista di un poema epico all’interno del quale non riterremmo inusuale scovare delle formule inneggianti la prodezza dei compagni guerrieri o la fedeltà del proprio cavallo così come non ci potrebbe apparire fuori luogo un dialogo dal sapore tragico rivolto alla propria spada, tacita compagna di mille imprese e ancora gocciolante del sangue di migliaia di infedeli.
Quello che ai nostri occhi può presentarsi solo come un motivo letterario insipido – potremmo ritenerlo quanto di più lontano possibile dall’originalità ci si possa aspettare da un autore oggigiorno e anche ieri – affonda le proprie radici in un retroterra sociale e religioso in cui il cavaliere non rivestiva soltanto i panni del difensore armato di una comunità fragile e dispersa ma era investito da quell’alone di sacralità che, ad un certo punto, divideva con i santi[4]. Una matrice sacra spirava da ogni suo gesto, da ogni componente della sua armatura e in particolar modo proprio dalla spada.
Come mai?
L’ambito del discorso nel quale ci stiamo cacciando e davvero molto ampio nonché poco sicuro ma risulta comunque molto affascinante e colmo di possibili suggestioni.
Se è vero che la figura del paladino Rolando, infatuato della propria spada, non abbia che una flebile consistenza storica – sviluppata da una tradizione tarda rispetto allo svolgimento e alla conclusione del regno del pio e feroce Carlo Magno – non si può negare affatto d’altra parte che sia il prodotto di secoli di credenze le cui origini affondano in un orizzonte geografico ampio e dai confini sfilacciati[5].
Lasciando da parte cavallo e armamentario vario e focalizzandosi solo sulla spada possiamo tracciare una genealogia che unisce, come le maglie di una catena, diversi miti di origine nordica ad altrettanti culti dei popoli del vicino oriente antico.
Partendo dall’epos cavalleresco medievale possiamo osservare come il ciclo bretone (così come quello franco) rivela diversi legami con la mitologia germanica: in ognuno di questi cicli narrativi, ad esempio, le spade hanno un nome proprio. Tale nome le connota come oggetti di particolare importanza alle orecchie degli ascoltatori, ascoltatori che hanno davanti gli occhi il corrispettivo reale delle leggende narrate in versi: il cavaliere al servizio del proprio signore. Rolando nei fatti è un servo dell’imperatore Carlo, Durendal una spada miracolosa che non può essere usata se non per combattere i mori. È una spada magica come altre, come Excalibur estratta dalla roccia all’avvento di re Artù e inghiottita dalle profonde acque del lago alla sua dipartita.
All’epoca in cui nasce e si diffonde il mito di Rolando, dunque, la spada non è solo dotata di una propria personalità e fornita di un nome ma riveste pure la funzione di reliquiario: con la forza di cristo e dei Santi il cavaliere medievale può lottare ferocemente contro le forze diaboliche e sconfiggerle. La violenza della sua azione e della sua vita è giustificata perché volta all’adempimento di una missione nell’orizzonte della quale il guerriero è strumento necessario e funzionale.
Un così alto valore affibbiato ad un’arma offensiva quale la spada non è propria, però, della religione cristiana delle origini: i martiri combattono contro il demonio rappresentato dai loro nemici ma la loro azione, almeno in origine, è sostanzialmente passiva. Cavaliere e martire sono comunque il tramite attraverso il quale Dio agisce.
Ma perché la spada riveste un così alto valore simbolico? Perché è percepita come necessaria al cavaliere?
Si potrebbe trovare una risposta esaminando velocemente il ruolo della spada all’interno della vita e della società di popolazioni barbare-germaniche che tra V e VII secolo si convertirono al Cristianesimo. Le saghe mitiche di popoli come i Longobardi, i Bavari individuavano nella spada il tocco di divinità infere (per via del ferro) come anche di divinità celesti (fuoco e aria) e marine.
Di conseguenza alto valore acquisiva la figura che materialmente realizzava l’arma: il fabbro.
I fabbri, nei primi secoli del medioevo, erano pochi e costituivano un circuito chiuso ammantato a sua volta di sacralità. Vivevano direttamente nelle zone di estrazione del ferro e, non di rado, all’interno delle folte foreste di querce che ricoprivano l’intera regione centrale dell’Europa.
Luogo meraviglioso per eccellenza, la foresta nascondeva le fucine dei suoi abitanti alla quotidianità affaccendata del piccolo borgo e conferiva, assieme alla difficoltà intrinseca alla forgiatura (e al fatto che i fabbri di solito facevano il loro sporco mestiere accompagnando ogni gesto a formule rituali) di una spada, un aria di ritualità all’intero procedimento[6].
Procedimento per altro non semplice che richiedeva diversi passaggi e che solo in un numero esiguo di casi (almeno nei secoli più alti) portava a risultati strepitosi.
Ancora una volta però sfugge l’origine più recondita della tradizione che vuole la spada, oltre che oggetto prestigioso, pure oggetto sacro e magico.
Non possiamo che concludere la nostra brevissima ricerca che con Erodoto, il padre della storia. Nel libro IV delle sue storie l’autore greco descrive, infatti, l’usanza di adorare le armi presso gli Sciti i quali sacrificavano cavalli (a loro volta animali sacri) e armenti ad una vecchia sciabola, simbolo di Ares.
A sua volta questo Ares non è altri che Batradz, l’eroe dei Sarmati dal corpo di acciaio così solidale con la sua spada da essere identificato con essa. Un dio-cavaliere che assomigliava tanto ai catafratti[7] delle pianure euroasiatiche e che a sua volta secoli dopo ricorderà il cavaliere bardato della propria armatura, che partecipava ai tornei con i quali si dilettavano i signori nelle loro corti a metà del Quattrocento[8].
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