Maria Beruccini

Dormono, dormono al cimitero monumentale di Milano

There would be a knock at the door
And I would arise at midnight and go to the shop,
Where belated travelers would hear me hammering
Sepulchral boards and tacking satin.
And often I wondered who would go with me
To the distant land, our names the theme
For talk, in the same week, for I’ve observed
Two always go together.

Bussavano alla porta / e mi devo essere alzato a mezzanotte, e andato in bottega / dove i nottambuli mi udivano martellare / assi sepolcrali e inchiodare raso. / E spesso mi sono domandato chi sarebbe venuto con me / nella terra lontana, i nostri nomi tema / di conversazione, nella stessa settimana — visto che, ho notato, / ce ne andiamo via sempre in coppia.

(Edgar Lee Masters, Jeduthan Hawley)

Ogni città piccola o grande, ogni remoto paesino tra le montagne o a picco sull’oceano ha la sua Spoon River. Basta varcare i cancelli di ferro battuto che separano la città dei vivi da quella dei morti per rendersene conto. Dietro a nomi sulle lapidi, agli angeli di marmo con le dita scheggiate dalle intemperie e ai busti in bronzi oramai colorati di azzurro c’è una storia che spera di essere ascoltata.

Una delle Spoon River in cui amo di più perdermi è il cimitero Monumentale di Milano, con il suo fascino decadente e silenzioso e la nomea di Museo a Cielo Aperto. E soprattutto con le storie dei suoi abitanti che, ora che sono morti e non hanno più nulla né da perdere né da guadagnare, sono pronti a raccontarsi per come sono veramente stati.

El pret de Ratanà

A chaplain in the army,
A chaplain in the prisons,
An exhorter in Spoon River,
Drunk with divinity, Spoon River —

Un cappellano nell’esercito / Un cappellano in prigione, / Un predicatore a Spoon River, / ubriaco di divinità, Spoon River —

(Edgar Lee Masters, Ezra Bartlett)

“Fermata clinica Gervasini!” annunciava il conducente del tram 34, arrivato alla fermata di via Forze Armate. Ed il mezzo, fino a quel momento carico di persone puntualmente si svuotava. Si recavano tutti ad una casetta in via Fratelli Zoia a Baggio, vicino a cascina Linterno, la stessa dove si dice abbia abitato Francesco Petrarca. Il proprietario era un prete scontroso, che rispondeva a tutti a male parole e si rifiutava categoricamente di parlare italiano, preferendo il dialetto meneghino. Si chiamava don Giovanni Gervasini, da tutti conosciuto come el Pret de Ratanà, soprannome che gli fu affibbiato anni prima, dopo essere approdato alla parrocchia di Retenate, un paesino oggi frazione di Rodano.

La fama del Pret de Ratanà era legata al suo dono di guaritore. Da giovane rimase affascinato dalla medicina non ufficiale, quella basata su erbe, infusi e decotti e durante il servizio militare aveva affinato le sue tecniche.

Da lui arrivavano persone di tutti le estrazioni sociali, ricchi e poveri per scambiare due parole e sperare di ricevere una cura al loro male, sia che fosse fisico oppure spirituale. Lui riusciva a capire al volo quale fosse il problema e lo risolveva con un intruglio dall’odore poco invitante, con lievito di birra o l’acqua fresca del fontanile, oppure con due ceffoni e qualche insulto. I suoi metodi poco convenzionali sembravano funzionare e la gente continuava ad arrivare.

Ogni famiglia di origine milanese ha una sua storia legata a don Gervasini. Mia nonna amava raccontare di come una volta suo padre, il nonno Matteo, piegato in due dal mal di schiena era andato di buon mattina in via Fratelli Zoia. «TE SET PROPI UN LAZARUN!» si sentì urlare dietro a mo’ di risposta e senza capire bene come si era ritrovato con un’accetta in mano ad accatastare legna. Verso mezzo giorno la legna era finita e dopo un pranzo offerto dal prete a base di risotto allo zafferano e vino, il mal di schiena era passato.

Si narra che anche Rachele Mussolini accompagnò alla clinica Gervasini la figlia Anna Maria, ammalata di poliomelite. Perché nonostante i modi burberi e poco convenzionali, el Pret de Ratanà non diceva di no a nessuno. La cassetta delle offerte, con le quali avrebbe comprato pane per i poveri della zona, sempre bene in vista.

Don Gervasini oggi riposa dal 1941 nell’angolo più remoto del cimitero Monumentale, circondato da piante curate, fiori sempre freschi, biglietti ed ex voto. È ancora molto amato e venerato dai milanesi ed in tantissimi visitano la sua tomba ogni anno.

RIP XX n. 93

Maria Beruccini

Maria Beruccini Cimitero monumentale di Milano

The secret of the stars, gravitation.
The secret of the earth, layers of rock.
The secret of the soil, to receive seed.
The secret of the seed, the germ.
The secret of man, the sower. The secret of woman, the soil.
My secret: under a mound that you shall never find.

Il segreto delle stelle, la gravitazione. / Il segreto del mondo, strati di roccia. / il segreto del suolo, ricevere seme. / Il segreto del seme, il germoglio. / Il segreto dell’uomo, il seminatore. Il segreto della donna, il suolo. / Il mio segreto: sotto un tumulo che non troverai mai.

(Edgar Lee Masters, Mrs. Sibley)

«Non dire ad alcuno perché sono morta».

Questo che potrebbe benissimo essere confuso con uno degli incipit delle poesie dell’Antologia di Spoon River è in realtà l’epitaffio di Maria Beruccini, è uno più criptici e poetici in cui ci si possa imbattere passeggiando tra le tombe e i viali alberati del Monumentale.

Uno sguardo alla scultura e subito si intuisce che c’è qualcosa di anacronistico in questa tomba. Una ragazza, nuda dalla vita in su, a piedi scalzi, capelli sciolti, i seni prosperosi e la schiena inarcata in una sorta di estasi.

Maria Beruccini, morta ventitreenne nel 1913.

Non dire ad alcuno perché sono morta. E, in effetti, nessuno sa il motivo per cui Maria sia morta. Ma la sensualità della statua, la giovane età e il criptico epitaffio, possono suggerire che Maria abbia deciso di porre fine alla sua vita per una storia d’amore impossibile.

E siccome ha deciso di non far conoscere a nessuno la sua storia, noi di più, rispettosamente, non chiederemo.

RIP IX n. 347

Giorgio Toscanini

Giorgio Toscanini Cimitero monumentale di Milano

Dust of my dust,
And dust with my dust,
O, child who died as you entered the world,
Dead with my death!
Not knowing Breath, though you tried so hard,
With a heart that beat when you lived with me,
And stopped when you left me for Life.
It is well, my child.
For you never traveled
The long, long way that begins with school days,
When little fingers blur under the tears
That fall on the crooked letters.
And the earliest wound, when a little mate
Leaves you alone for another;
And sickness, and the face of Fear by the bed ;
The death of a father or mother ;
Or shame for them, or poverty;
The maiden sorrow of school days ended ;
And eyeless Nature that makes you drink
From the cup of Love, though you know it’s poisoned ;
To whom would your flower-face have been lifted ?
Botanist, weakling ? Cry of what blood to yours ?
Pure or foul, for it make no matter,
It’s blood that calls to our blood.
And then your children oh, what might they be ?
And what your sorrow ? Child! Child!
Death its better than Life!

Polvere della mia polvere / e polvere con la mia polvere, / Ah, bambino morto prima ancora di entrare nel mondo / morte con la mia morte! / Senza conoscere Respiro, anche se così tanto ci hai provato / col cuore che batteva quando vivevi con me / e si è fermato quando mi hai lasciata per la Vita. / Bene, bimbo mio, / che tu non abbia attraversato / la lunga, lunga strada che inizia con i giorni della scuola / quando le piccole dita sbavano sotto le lacrime / che cadono sulle lettere sbilenche. / E la prima ferita, quando un piccolo amico / ti lascia solo per un altro; / e la malattia, e la faccia della Paura accanto al letto; / la morte del padre o della madre; / o la vergogna per loro, o la povertà; / e il vergine rimpianto dei giorni di scuola finiti / e una Natura senza occhi che ti abbevera / alla coppa dell’Amore, anche se sai che è avvelenata; / a chi avresti rivolto il tuo viso di fiori? / Un botanico? Uno smidollato? / Quale grido di quale sangue per te? / Puro o pazzo, non fa differenza, / è sangue che chiama il nostro sangue. / E i tuoi bambini… oh, chi sarebbero stati? / E quale il tuo dolore? Bimbo! Bimbo! / La morte è meglio della vita! /

In un’imponente edicola di marmo bianco che porta ancora i segni dei bombardamenti del 1943 riposa Giorgio, che è morto piccino. Si spense a Buenos Aires durante una delle trasferte oltreoceano del padre, nel 1906 a causa di una difterite, poco prima di compiere cinque anni.

Nonostante la prematura scomparsa, Giorgio viaggiò moltissimo e la sua tomba racconta ognuno dei suoi viaggi.

La parete destra racconta del breve viaggio che fu la sua vita, dove tre fanciulle celebrano la sua nascita vegliando e danzando intorno ad una culla vuota. Sono le Parche ed una di loro tende il filo che è troppo presto verrà reciso. Le stesse tre donne sono presenti sulla parete sinistra dell’edicola. Reggono tra le mani i libri e i giocattoli che hanno accompagnato suoi i viaggi con la fantasia. Una trenino e una tromba perché chissà, magari avrebbe seguito le orme del padre e anche lui sarebbe diventato musicista.

Due angeli, infine, accompagnano la nave che avrebbe riportato il corpo del piccolo Giorgio a casa, nel suo ultimo viaggio. Rappresentano l’America, dove il bimbo perse la vita, e l’Europa che avrebbe accolto la sua bara. Sul retro, protetti da una volta stellata, i genitori, Arturo e Carla, lo piangono sconsolati, stretti un eterno abbraccio.

Oggi quella di Giorgio è una delle tombe più famose e visitate del Cimitero Monumentale, l’edicola Toscanini. Accanto a lui riposa tutta la sua famiglia, tra cui Il padre Arturo, celeberrimo direttore d’orchestra del teatro La Scala e il pianista Vladimir Horowitz, marito della sorella maggiore di Giorgio, Wally.

RIP VII n.184

Gaby Angelini

Gaby Angelini cimitero monumentale di Milano

In youth my wings were strong and tireless,
But I did not know the mountains.
In age I knew the mountains
But my weary wings could not follow my vision —
Genius is wisdom and youth.

Da giovane le mie ali erano forti e instancabili, / ma non conoscevo le montagne. / Da adulto ho conosciuto le montagne / ma le mie esauste ali non potevano seguire la mia visione / — il genio è saggezza e gioventù.

(Edgar Lee Masters, Alexander Throckmorton)

La madre di Gabriella, o Gaby, capì subito di avere una figlia testarda e determinata. Cercò in tutti i modi di convincerla che la danza classica o il pianoforte erano attività più consone ad una signorina, figlia di una benestante famiglia di imprenditori meneghini. Gaby, però non era interessata a queste frivolezze, utili solo a ragazze in cerca di un fidanzato. Lei amava i motori, a velocità. Più di ogni altra cosa al mondo, Gaby voleva volare.

Con la sua caparbietà riuscì a strappare il permesso di iscriversi, appena maggiorenne all’Aeroclub di Milano dove, nel 1931 conseguì il brevetto di volo. Comprò anche il monomotore da turismo, un Breda Ba.15, che l’avrebbe accompagnata in tutte le sue imprese. Vane furono le lacrime e le suppliche della madre, che profeticamente appellò il velivolo “una bara volante”.

Il suo spirito di ardimento eroico era pronto per elevarsi in cielo (parafrasando l’epitaffio)

Gaby non perse tempo e nell’estate del 1932 partecipò ad un raid europeo, durante il quale sorvolò 8 paesi in 25 giorni. Tutti furono colpiti da questa coraggiosa aviatrice italiana, sempre sorridente e appena ventenne. Fu affettuosamente soprannominata “Little Gaby”.

Il suo rientro in Italia fu accolto con tutti gli onori, con l’onoreficenza de “L’Aquila d’Oro”. Il successo della sua impresa, però, la spinse ad affrontarne un’altra, ancora più rischiosa.

Nel dicembre 1932 decise di partire per un raid asiatico, con destinazione Nuova Dehli, sorvolando il nord Africa. Sorvolando il deserto libico, in prossimità dell’oasi di Uadi el-Ghelta, sul suo monomotore si abbattè una tempesta di sabbia e di Gaby si persero le tracce. Era il 3 dicembre. Nel cielo d’Africa, smise di battere l’ala del suo sogno (cit. epitaffio).

Il suo corpo venne ritrovato solamente giorni dopo, con i rottami del suo amato veivolo, e riportato nella sua Milano.

Sulla sua tomba, Gaby è rappresentata con lo sguardo teso all’orizzonte, in uno slancio verso il cielo, pronta, in morte come in vita, ad un nuovo decollo, pronta per la sua prossima avventura.

RIP XVII n.202

cimitero monumentale

Where are Elmer, Herman, Bert, Tom and Charley,
The weak of will, the strong of arm, the clown, the boozer, the fighter?
All, all, are sleeping on the hill.

Where are Ella, Kate, Mag, Lizzie and Edith,
The tender heart, the simple soul, the loud, the proud, the happy one? —
All, all, are sleeping on the hill.

Dove sono Elmer, Herman, Bert, Tom, Charley? / Il debole di volontà, il forte di braccia, il pagliaccio, l’ubriaco, il combattente? // Tutti , tutti, dormono sulla collina.

Dove sono Ella, Kate, Lizzie ed Edith, / La tenera di cuore, l’anima semplice, la fragorosa, l’orgogliosa, quella felice? // Tutte, tutte, dormono sulla collina.

(Edgar Lee Marsters, La collina)

Non tutte le storie dietro ai nomi o ai ritratti in ceramica sbiaditi dal tempo si possono trovare sui libri. Tante sono state dimenticate e molte altre ancora raccontate così tante volte che è impossibile distinguere la realtà dall’esagerazione tipica della tradizione orale. Come quella dello zio Giuseppe, detto Pippo.

Nato sul finire del XIX secolo, librettista al teatro alla Scala, orgoglioso autore di una raccolta di sonetti a tema amoroso di dubbio gusto. Amatore delle donne, delle carte e della bella vita. Dopo aver sperperato tutta la fortuna famigliare si dice che sia stato costretto a lavorare in fabbrica per la prima volta nella sua vita. Si narra che dopo un ordine ricevuto troppo bruscamente dal suo datore di lavoro si sia sfilato un guanto e l’abbia sfidato a duello. Licenziato in tronco. Riposa sotto ad un’anonima tomba in granito nero a due passi da quella di Gaby. Il suo nome si trova affianco a quello dei suoi genitori, Virginia e Severino, i cui ritratti ho sempre visto appesi alle pareti di casa dei miei nonni materni e a cui ho sempre invidiato l’eleganza e la signorilità. Mio nonno, oramai novantenne, si è sempre riferito loro chiamandoli “i miei nonni”.

Anche loro dormono, dormono al cimitero Monumentale di Milano.

 


Fotografie di Maria Elena Villa e Gabriele Stilli. Le poesie di Lee Masters in inglese sono tratte da Edgar Lee Masters, Antologia di Spoon River, Newton Compton, 1974. La traduzione è invece nostra.

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