Ritratto di Thomas Hobbes, padre dell'empirismo

Hobbes e Locke: il fascino discreto dell’empirismo

La soggettività, la razionalità, la certezza intuitiva dell’esistenza dell’Io, fondamento della conoscenza e irriducibile a ogni dubbio: con Cartesio si assiste all’affermazione di queste categorie nell’indagine dei fondamenti della conoscenza. Abbiamo visto, cioè, il sorgere della filosofia moderna. Aggiungiamo ora un nuovo tassello al mosaico che stiamo componendo: parliamo dell’empirismo.

L’empirismo inizia la sua storia moderna con le riflessioni di Hobbes e di Locke, ed è tradizionalmente considerato l’avversario naturale del razionalismo cartesiano. In realtà, però, questa è una schematizzazione troppo facile, dietro la quale si celano punti di contatto anche importanti. L’ambiente storico, infatti, in cui queste due correnti filosofiche prendono forma è il medesimo. È il Seicento, un’epoca di transizione, che vede coesistere al suo interno elementi di grande rottura, come le  rivoluzioni inglesi e all’affermazione economico-politica della borghesia, e  allo stesso tempo residui del passato, come l’Inquisizione e le guerre di religione. È dunque un’epoca di forti contrasti e contraddizioni che vengono assorbite da entrambe le correnti.

Tuttavia è indubbio che delle differenze di posizioni, in certi tratti anche sostanziali, esistono davvero, a partire dallo scopo dell’indagine. Se il razionalismo cartesiano infatti vuole rifondare il sapere su una base irriducibile a ogni dubbio, delineare un metodo che ci permetta di formulare conoscenze assolutamente certe, l’intento dell’empirismo inglese è in primis politico e in secondo luogo di chiarificazione delle modalità di funzionamento dei processi cognitivi dell’uomo. In altre parole, se il primo si interroga sui limiti delle nostre facoltà conoscitive, il secondo si preoccupa di descrivere come stiamo in società e come conosciamo, mettendo al lavoro le acquisizioni metodologiche della scienza dell’epoca.

E proprio a partire da quest’ultima considerazione ci è possibile soffermarci sulle peculiarità delle posizioni di questi filosofi. La scienza, per come questa inizia a prendere corpo, viene assunta a modello di verità oggettiva delle teorie. Sembra un presupposto scontato, ma asserire la possibilità di indagare i fatti del mondo nei termini di riconduzione induttiva a leggi generali e universali in realtà non è proprio scontato, né privo di problematiche e alieno da possibili critiche.

Non solo. Come la parola “empirismo” suggerisce, il punto di partenza che viene assunto è quello dell’esperienza diretta, dell’autopsia (il “vedere con i propri occhi”). Un vedere che però non è condizionato da pre-giudizi, che è assolutamente neutro, “puro” e, soprattutto, un vedere portatore di verità certa e indubitabile.

Diciamolo in un altro modo.

John Locke
John Locke

Io, soggetto conoscente, mi trovo in relazione con ciò che avviene fuori di me: eventi particolari, “fatti singolari”. Faccio esperienza di questo tavolo, di questa persona particolare, e così via. In questa relazione sono in una posizione neutrale, non condizionata da alcun tipo di presupposto teorico o metodologico. A partire da questa esperienza, grazie a una generalizzazione di ciò che scopro costante nel mondo, sono in grado di uscire dal particolare, di emanciparmi dalla singolarità del dato esperito, formulando leggi generali valide per tutti gli oggetti simili.

Così se vedo che nel mondo un certo numero di oggetti cadono secondo una certa traiettoria e con una certa velocità posso asserire che tutti gli oggetti devono cadere seguendo una certa traiettoria e con una certa velocità. Allo stesso modo, se vedo che più individui si relazionano tra di loro cercando di trarre per se stessi il maggior guadagno a danno degli altri, sarà per me possibile (e legittimo) sostenere che ogni individuo è per sua natura egoista e attento più al proprio interesse che a quello altrui.

Lo dicevamo, questa concezione non è scontata e nasconde molti problemi. Ci ritorneremo più analiticamente, basti qui un breve accenno.

Intanto, che la mia esperienza sia “pura” e priva di presupposti teorici va dimostrato. Quando mi relaziono con la realtà che mi circonda necessariamente indosso degli “occhiali deformanti” che mi permettono di percepire un fenomeno all’interno di un quadro già dato. Quanto questo rischia di determinare l’esito della mia indagine? Quanto, in ambito scientifico per esempio, l’invenzione di esperimenti ad hoc tesi a dimostrare la veridicità di una certa ipotesi influenzano l’esito della ricerca?

In secondo luogo, il passaggio dal particolare al generale non è sempre necessariamente legittimo come l’empirismo presuppone. Bertrand Russell spiegò le trappole che si annidano nel procedimento induttivo in un famoso esempio, quello del tacchino induttivista. Un tacchino, egli dice, vede ogni mattina il sole sorgere, la porta della gabbia aprirsi, e l’allevatore con il cibo. Da questa costante esperienza egli induce che c’è una relazione tra il sorgere del sole, l’aprirsi della gabbia e il nutrimento. Questo fino a quando non arriva il Giorno del Ringraziamento: il sole sorge, la porta si apre, l’allevatore entra nella gabbia ma non è per dargli da mangiare, bensì per ucciderlo. Al di là dell’esempio, il problema sollevato da Russell è legittimo: cosa mi garantisce che le leggi scientifiche siano sempre vere?

Bertrand Russell
Bertrand Russell

Il fatto di averle applicate con successo mille, diecimila o un milione di volte mi può suggerire che la prossima volta esse non falliranno, ma questo suggerimento non è chiaramente equivalente a una dimostrazione. Ma non basta, c’è un’ulteriore ragione per essere diffidenti nei confronti dell’ipotesi empirista.

Ammesso che la bontà delle ricerche scientifiche possa essere assunta per quanto riguarda il mondo fisico-naturale, che la stessa metodologia possa venir trasferita specularmente nell’ambito del mondo umano e sociale desta infatti qualche perplessità[1]. Cosa mi legittima nel trattare gli individui, con il loro portato psicologico, la loro creatività e inventiva, allo stesso mondo in cui tratto i gravi, gli atomi e le molecole?

Ma non corriamo. Benché valide, queste obiezioni sono ancora da venire. Torniamo quindi a Locke e Hobbes e alla loro teoria epistemologica.

L’esperienza è il punto di partenza.

L’osservazione delle costanti nel mondo e la generalizzazione in leggi il punto di arrivo. Ma come è possibile che l’uomo riesca a intraprendere questo processo cognitivo? Il merito, sostengono, va attribuito al linguaggio. Un insieme di segni arbitrari, elaborati dall’essere umano, i quali fanno le veci delle cose che significano e ci permettono di calcolare, addizionare e sottrarre idea a idea. Così “uomo” è la somma “animale” e “razionale”. Grazie a questa peculiare capacità del linguaggio, possiamo elaborare ipotesi, sillogismi, ragionamenti, inferendo nessi tra cause ed effetti, costruendo discorsi scientifici.

Maggiore sarà la predittività (la capacità di prevedere cosa accadrà nel mondo), maggiore sarà l’aderenza dei discorsi scientifici alla realtà (la capacità di conformarsi all’esperienza), maggiore sarà anche la loro verità. Siamo così tornati al punto di partenza, all’empiria come garanzia suprema di ogni teoria scientifica. Il grandioso tentativo empiristico di fondazione della conoscenza ha trovato, almeno così crede, la quadratura del cerchio. Numerosi tentativi saranno fatti per metterlo in discussione, ma l’incredibile resistenza che ha dimostrato lungo i secoli denuncia il fascino che, ancora oggi, sanno esercitare questi pensatori.

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