Oltre le mura, sul volto i tiepidi raggi del sole morente. L’odore delle cucine, i rumori dei servi, i miei piedi sul sentiero che erto si inerpica sul colle, le mie mani nelle tue. La presente stagione.
Tu non chiedere (conoscerlo è sacrilego) quale fine
a me, quale fine a te gli dei abbiano dato, Leuconoe[2],
e non tentare le cabale di Babilonia[3]. Quanto è meglio,
quel che sarà, patirlo! Che Giove ti abbia accordato
molti inverni, che sia l’ultimo quello che il mare Tirreno
strema contro gli scogli, sii saggia: filtra il vino[4],
e ritagliati una lunga speranza in uno spazio modesto.
Mentre parliamo, già sarà fuggito il tempo invidioso:
afferra l’oggi, credendo il meno possibile al giorno che viene.(Traduzione di Gabriele Stilli)
Carpe diem: due parole, tra le più conosciute dell’antichità, che costituiscono una felice e fortunata espressione di Orazio, sintesi di un modo di rapportarsi al mondo e alla vita propria non solo del poeta ma anche di molti suoi contemporanei. Orazio ci invita ad afferrare l’oggi, a cogliere l’attimo, a non tentare di scrutare ciecamente ciò che è lontano, ciò che non possiamo prevedere.
La matrice di questo pensiero è individuabile nella filosofia di Epicuro, filosofo greco del III secolo a.C., che verteva su una concezione di vita legata al piacere come elemento essenziale del raggiungimento della felicità. Orazio è un epicureo convinto, che esprime più volte un sentimento di placida ricerca del piacere, già nelle Satire, ma soprattutto all’interno degli Epodi, e infine nella sua opera più celebre, le Odi. L’invito del poeta è sempre lo stesso seppur variato in una serie di motti e situazioni: cogliere i sani momenti che la vita ci offre, non eccedere in smodatezze viziose e non lasciarsi tormentare dall’incertezza di un futuro oscuro e fumoso. In altre parole, l’edoné, il principio epicureo che invita a godere dei piaceri sani e naturali concessi all’uomo.
L’epicureismo, contrapposto all’austera dottrina degli stoici, vivrà ancora per secoli assumendo a volte connotazioni semplicistiche, ma anche annoverando autentici uomini di cultura (si pensi alla figura di Petronio Arbitro), fino a quando la civiltà latina non subirà un profondo mutamento antropologico: l’avvento del cristianesimo.
Padre dell’Europa moderna, artefice e demiurgo della coscienza dei popoli mediterranei per i molti secoli del Medioevo, questo nuovo credo propone (impone?) una visione della vita, un rapportarsi con essa, totalmente opposto all’ottica edonistica. Pentirsi della vita, pregare non per un domani migliore, ma per la vita eterna che ci attende una volta varcata la soglia nera della morte. Tale cambiamento, una visione opposta della realtà, è da ricercarsi nel contesto concreto in cui operarono gli epicurei prima e i cristiani poi.
I primi, gente potenzialmente ricca o comunque agiata, si muovono all’interno di una realtà multiforme, piena di attrattive e svaghi (non dissimile dalla nostra). Il piacere di cui parlano non è la corruzione della carne e del vizio: è una ricerca del giusto mezzo, per godere giusti piaceri. I secondi, oppressi e perseguitati, in uno stato di miseria, tendono a proiettare la loro felicità in un’altra vita.
La mortificazione del corpo e l’esaltazione dell’anima sono solo alcuni dei concetti che guidano la vita dell’uomo medievale, intrappolato nella rete di credenze e riti che segna la sua quotidianità. Nel corso di questi secoli quasi scompare la filosofia di Epicuro, mentre Orazio è letto in chiave cristiana e apprezzato soprattutto per il suo stile raffinato.
Umanesimo e Rinascimento, invece, riscoprono e reinterpretano la filosofia epicurea: personaggi come Lorenzo de’ Medici, e in generale il clima che si respira nell’Italia delle corti, riprende (in modo anche molto consapevole) quella raffinatezza e quel mecenatismo che erano tipici della cultura antica. Lorenzo De’ Medici, inoltre, è anche poeta e, come è noto, una delle sue poesie più note invita a godere dell’esistenza, in quanto «di doman non c’è certezza». L’Epicureismo si mescola e diventa quasi sinonimo di edonismo, spogliandosi nel contesto rinascimentale della saggezza e della severità propri dell’originale. Anche nel Rinascimento maturo l’opulenza e la raffinatezza delle corti si manifestano in una serie di affreschi, di iconografie che ricordano l’età dell’oro, Bacco e Arianna, i banchetti spensierati di figure mitiche e antiche. Questo si può vedere a Palazzo Schifanoia a Ferrara oppure, in particolare, a Palazzo Te a Mantova, in cui viene rappresentata la giocosità, le maschere, il divertimento: nella sala di Amore e Psiche, per esempio, possiamo ammirare il banchetto degli dei, in cui vediamo Sileno afferrare un’anfora di vino, vediamo figure seminude, animali esotici, spensieratezza e gioia. Il richiamo propagandistico è evidente: la corte dei Gonzaga è una riedizione moderna dell’età dell’oro. La prosperità di quell’epoca è la prosperità del presente.
Nell’era contemporanea sono avvenuti così tanti sconvolgimenti, cambi di paradigma, di pensiero, che la filosofia antica ci appare lontana, e forse anche un po’ ingenua. Però, pur in questa grande distanza, si può individuare un’onda lunga, non tanto dell’epicureismo in sé, quanto dell’edonismo. Pasolini parlava di edonismo descrivendo la civiltà dei consumi: godere i piaceri concessi dalla vita è il nostro canto, ispirato da un materialismo non meglio definito, impostoci dalla realtà consumista che ci circonda, satura di possibilità da cogliere al momento.
Parole rivolte al nostro intimo, ci influenzano e ci formano, testimoni della più grande arma che l’uomo ha a sua disposizione. Interpretate e reinterpretate nel corso dei secoli, parlano ad ognuno assumendo di volta in volta nuove sfumature e colori ma rimanendo al contempo sempre le stesse e veicolando sempre lo stesso invito: afferrare il presente, non turbarsi del domani. Godere i caldi raggi del sole che morente si nasconde dietro alla collina, prima che il velo della notte ci chiuda gli occhi per sempre. Potremmo riaprirli in Paradiso o all’Inferno.
Ma, nel dubbio…
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