No, non potevi farlo anche tu – I
Aspirante guida sintetica per nemici dell’arte contemporanea
Esiste una specifica frase che riesce a turbare e ferire nell’animo qualsiasi studioso, esperto e appassionato di arte contemporanea. Una frase la maggior parte delle volte detta con leggerezza, altre pronunciata quasi per sfida, con falsa noncuranza, buttata lì dall’avventore del giorno, che di fronte all’opera di turno, mentre punta il naso verso l’alto, con un occhio che guarda indietro, pronto a cogliere sul viso e sul corpo del povero accompagnatore un qualsiasi segnale di cedimento, un tremolio e un arricciamento del labbro superiore, un leggero strizzare di occhi e un irrigidimento del busto e delle gambe, pronuncia scrollando le spalle.
“Ma questo potevo farlo anche io”.
Non importa che ci si trovi davanti al primo Ready-made dadaista della storia, all’ultima opera del suprematismo sovietico, alla genialità espressiva della pop art o al più grande esemplare di astrattismo geometrico. Non importa se ci siano o meno didascalie esplicative, se l’allestimento museale sia adeguato o rivedibile, se le luci colpiscano nel punto giusto e con la giusta intensità i giochi di luci e ombre creati con l’acrilico o con la tempera. Non importa che tu sia stato lì a spiegare il perché, il come, il quando. Lo scontro tra chi ama l’arte contemporanea e chi non la capisce sarà sempre doloroso per il primo e deludente per il secondo.
Ma l’amore si sa è cieco, e quindi da buona appassionata di questo folle periodo artistico non posso fare a meno di continuare la mia battaglia, con caparbietà e con una buona dose di masochismo, per provare a spiegare e far capire perché no, proprio non avresti potuto farlo anche tu.
Non dico che sia facile, perché se nell’arte moderna l’aspetto puramente visivo ed estetico rappresenta già un primo grande livello di intelligibilità e di giudizio che solo dopo, per i più curiosi e appassionati, può scendere nel contesto storico e sociale e offrire un secondo livello di interpretazione, per l’arte cosiddetta “contemporanea” è un po’ diverso.
Il modo di dire “nel bene o nel male, purché se ne parli” calza alla perfezione la realtà dei fatti, perché lo scopo principale è scatenare una reazione. Stupore, dubbio, schifo, gioia, commozione, tutto è possibile e ben accetto. Ma rare volte si parla di Bellezza con la “B” maiuscola, del bello oggettivo, di lineamenti delicati e scenari idilliaci. Seguendo questo ragionamento le ultime opere a salvarsi dal pubblico ludibrio parrebbero risalire alla dolce pennellata di Monet e Manet, alle deliziose ballerine di Degas e agli scorci parigini di Renoir.
Come immaginerete, sono qui per dirvi che no, non è così, e non lo è per diversi motivi. Il prodotto artistico è sempre fortemente legato al tempo in cui è stato concepito, la differenza fondamentale rispetto al passato però è che ora (e con ora si intenda sempre, per licenza poetica e convenzione storiografica, il periodo a partire dal XX secolo) l’arte non è più cosa fatta da pochi e destinata a pochi: con l’aumentare dei mezzi, delle modalità espressive e del bacino di utenza, l’arte diventa cosa – potenzialmente – per tutti.
E come può un prodotto così immenso, complesso e sfaccettato non nascondere mille piani di significato, molteplici “se” e “ma” e svariati livelli interpretativi? L’arte contemporanea è figlia di un tempo caotico e possibilistico, ricco di traumi e catastrofi che per la prima volta sono in grado di raggiungere, per notizie e per effetti, tutto il mondo nel minor tempo mai concepito.
Molti sono i teorici e gli intellettuali che si sono cimentati nell’analisi e comprensione di questo secolo, dandone definizioni spesso tra loro contraddittorie, identificandolo come un periodo storico capace di immani violenze e al tempo stesso incredibili rivoluzioni culturali e umane. Questo agrodolce connubio di violenza e progresso sembra quindi essere la chiave di volta per il «secolo breve», permeato da eventi che hanno avuto un forte impatto anche sul retroscena culturale, artistico e letterario.
Partiamo dall’inizio, e per questa volta concentriamoci sul primo vero e proprio kaboom del Novecento. Ad aprire le danze è l’insieme di tensioni e cambiamenti politici e territoriali che sfoceranno poi nella prima guerra mondiale, conflitto condotto con nuove tecnologie e nuove armi, che porta con sé inizialmente il desiderio di distruzione totale, e in seconda battuta un completo stravolgimento delle condizioni economiche, politiche e culturali, che prepara il terreno all’esperienza delle avanguardie storiche e alla metamorfosi epocale del concetto di “fare arte”.
Contrapponendosi con forza alla cultura ufficiale troppo tradizionale e conformista, gli esponenti di queste nuove correnti artistiche tentano di rinnovare dalle fondamenta le forme e i linguaggi precostituiti avvicinandosi alla nuova realtà industriale che si stava profilando, senza però cadere nella mercificazione del prodotto artistico.
Gli istinti come la follia, il sogno o la violenza che il perbenismo borghese aveva sempre cercato di reprimere, vengono ora esaltati e fatti oggetto dell’azione artistica. Le parole del Futurismo, onomatopeiche e in movimento, l’idea di recupero e collage del Dadaismo, la forza innovatrice e onirica del Surrealismo si innestano così nella coscienza artistica degli intellettuali del tempo e di quelli di là da venire, creando un solido retroterra per le sperimentazioni degli anni successivi.
Un’opera come il trittico Gli stati d’animo di Umberto Boccioni – Gli Addi, Quelli che vanno e Quelli che restano – non avrebbe alcun senso se analizzata separata dal suo contesto, se vista nella sua semplice rappresentazione formale senza scavare più a fondo. Un turbine di colori, di linee e di intuizioni di forme, il tentativo di innovare che è ben evidente nel passaggio da una prima versione (maggiormente legata al divisionismo, caratterizzato dalla stesura del colore in singoli punti distinguibili) a una seconda, che richiama invece la tecnica cubista della scomposizione apparentemente caotica delle forme; un plauso al tentativo di sganciarsi per sempre dal figurativismo e dalle tecniche conosciute per andare oltre; un impatto visivo decisamente folgorante.
Sì, ma che altro? Cosa c’è dietro? La volontà di rappresentare l’energia in cui l’uomo moderno si trova a essere risucchiato, i nuovi non-luoghi come le stazioni e altri punti di snodo, le attese e speranze dell’essere umano nel nuovo secolo.
E davvero la famosissima e irriverente Fontana di Duchamp è solo un orinatoio denaturalizzato e “abbellito” con qualche segno grafico? Un monolite di ceramica messo sotto i riflettori solo per scandalizzare? Sicuramente l’intento era quello di stupire, ma non tanto – o non solo – per l’effetto “wow”. Nell’anartista per eccellenza l’idea dell’oggetto già fatto (appunto il ready-made) segue il lineare quanto rivoluzionario ragionamento che sia l’artista a proclamare il valore di un soggetto-oggetto, identificandolo e appropriandosene con una firma, legittimando la sua presenza in un museo o in una galleria, decontestualizzandolo e privandolo del suo consueto uso.
L’arte è figlia del suo tempo, è portatrice di valori, sfide e insegnamenti e a loro è legata a doppio filo. L’unica cosa che lo spettatore può fare è cogliere questo sentimento, immedesimarsi, farlo proprio e realizzare che se tutto oggi è così libero, così possibile, così ambivalente è grazie a chi per primo ha raccolto queste provocazioni e ha scelto di rompere i legami con quanto c’era prima. E questo è solo il primo dei motivi per cui no, nessuno di noi avrebbe potuto farlo. O per lo meno non in maniera così splendidamente pioneristica.
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In copertina: Umberto Boccioni, Gli addii (seconda versione), dal trittico Gli stati d’animo, 1911.