All Art Has Been Contemporary: tutta l’arte è stata contemporanea. Questo semplice enunciato, oggetto di un’installazione al neon di Maurizio Nannucci, contiene una verità innegabile. Ciò che da sempre contraddistingue l’arte infatti, è la capacità di essere riflesso della realtà che ci circonda, dei costumi che cambiano, delle epoche che si susseguono.
Ciò vale tanto per l’arte antica quanto più per quella a noi contemporanea.
Tuttavia sono molti coloro che davanti al linguaggio artistico d’oggi restano perplessi e si chiedono quale significato o quale valore possa mai avere un orinatoio, oppure una scatoletta intitolata “Merda d’artista” o addirittura una gigantesca statua raffigurante un dito medio alzato e posto in Piazza Affari a Milano.
Questi sono solo alcuni fra i mille esempi che si potrebbero citare; diciamo che a partire dalle Avanguardie del primo Novecento, per poi approdare alle cosiddette Neo-Avanguardie fino alle infinite possibilità che il nostro secolo offre, l’arte si è evoluta e con essa anche i materiali e l’atto stesso del creare.
Sarebbe erroneo tuttavia considerarla come linguaggio alieno rispetto a ciò che ci circonda, poiché essa è semplicemente espressione di quello che la società odierna offre e come tutti i linguaggi, anch’essa ha bisogno di strumenti interpretativi per poter essere compresa nella sua totalità e far trasparire quel messaggio che, a una prima lettura, potrebbe risultare estremamente banale.
C’è poi un altro aspetto che si tende a sottovalutare – forse anch’esso specchio del pregiudizio attuale – ossia che non ci possa essere una comunicazione fra epoche, che inevitabilmente arte antica, moderna e contemporanea non possano “prendersi per mano”. Nulla di più sbagliato!
Moltissimi studiosi[1], soprattutto del secolo scorso, si sono occupati di questo aspetto, riscontrando come mettendo a confronto immagini distanti nel tempo, si creasse fra loro un’inattesa sinergia, capace di dar luogo a nuove configurazioni di significato.
Tutti, visitando qualche collezione, siamo incappati nel nome dell’artista Lucio Fontana e nei suoi celebri Concetti Spaziali degli anni ’50 – comunemente noti come “Buchi” e “Tagli”- e certamente in molti si sono chiesti quale sia il valore artistico di opere di questo genere, che sostanzialmente sono tagli o lacerazioni su tele monocrome, e quindi apparentemente non presentano un grado di elaborazione elevata.
Ciò che si tende a sottovalutare, oltre a una tecnica che non lascia nulla al caso, è che l’artista, attraverso quel gesto, mise in atto una vera rivoluzione.
Fontana non considerava la tela come una superficie bidimensionale, ma come una materia plastica dalle potenzialità spaziali. Egli riuscì a superare l’illusionismo dell’arte e a integrare lo spazio reale nell’opera superando la cosiddetta “eredità rinascimentale”, intesa come rappresentazione illusionistica dello spazio attraverso la prospettiva.
In questo modo, mediante un’apertura fisica della superficie si creava un legame tra lo spazio dell’osservatore e lo spazio pittorico[2].
La scoperta del cosmo è una dimensione nuova, è l’infinito, allora buco questa tela, che era alla base di tutte le arti e ho creato una dimensione infinita […] l’idea è proprio quella lì, è una dimensione nuova corrispondente al cosmo.[3]”
Quindi il gesto di fendere il supporto può risultare quantomai innovativo sotto molti punti di vista, ma adottando una prospettiva diversa possiamo evidenziare degli antecedenti. Sfogliando le pagine più importanti della storia dell’arte infatti c’è un altro supporto che si presta ad essere profanato, violentato e ferito, alla pari dei quadri di Fontana: la pelle del corpo umano. La pelle è infatti a tutti gli effetti una superficie di iscrizione, è tesa e liscia come quella di un quadro e presentano entrambe resistenza ed elasticità.
Emblema di questo legame è senza dubbio la Body Art, in cui è l’artista stesso a lacerare la pelle del proprio corpo in una sorta di atto performativo, ma fuor di dubbio simbolo di questa rassomiglianza sono le ferite del corpo di Cristo, da sempre al centro di una serie di motivi iconografici, in particolare la trafittura al costato.
Essa, oltre ad essere rappresentata in moltissime Pietà, diventa anche soggetto principale in alcune immagini destinate esclusivamente all’intimità della preghiera.
Ne sono esempio due miniature tratte dal Breviario di Bonne de Luxembourg (1349 c.a) e da un Libro d’ore (XV sec.), in cui una ferita verticale di colore rosso viene totalmente resa protagonista dell’intera pagina.
L’atto di devozione legato a queste immagini non si discosta poi da quello presente in un altro genere: il Speerbilder, diffuso soprattutto in ambito germanico. Queste raffigurazioni avevano per oggetto il cuore del Salvatore con un’incisione che tagliava direttamente anche la carta, esattamente come fosse la pelle.
In questo modo il rapporto di omologia che si viene a creare tra la ferita al cuore e il taglio del supporto cartaceo, rafforza ulteriormente la partecipazione emotiva del fedele[4].
Come si è potuto constatare quindi se nelle rappresentazioni del passato la ferita al costato di Cristo diventa ricorrente oggetto di culto e raffigurazione, in egual misura di essa si ritrova inaspettatamente traccia nella contemporaneità, attraverso il taglio-ferita di Fontana.
Probabilmente l’artista non era a conoscenza di questo valore aggiunto o pur sapendolo, non vi avrebbe ugualmente riposto molto interesse; non bisogna dimenticare del resto che gli anni in cui opera Fontana, sono caratterizzati da profondi cambiamenti sia nel panorama artistico – Pollock pochi anni prima iniziò a comporre i primi quadri con la tecnica del Dripping – sia nel panorama mondiale, in cui gli ordigni atomici, i primi satelliti, e la neo-nascente televisione, avevano necessariamente reso i confini più labili.
Oggi certamente possiamo avere una visione più completa, favorita da diversi e multidisciplinari approcci nei confronti dell’immagine, tuttavia ancora si fatica a mantenere una mentalità aperta e curiosa verso le sue infinite declinazioni.