Noè Albergati

Il canto di Ulisse, di Noé Albergati

Aspettano sulla scogliera
rivolte al mare il ritorno delle navi
due sedie vuote
e sospinge la brezza salmastra
il loro discorrere fino all’albatro
e intiepidiscono l’aria addii che sospendono
tante piccole inezie pungenti,
schizzano le onde sbattendo sugli scogli
e brucia il fiato di un bacio sulla soglia.

Fischia nell’intreccio di vimini il vento marino
e sembra urlare tarde parole, vane alla mente
dopo che il vento ha gonfiato le vele;
sono uscite a pescare le navi
e inseguono non lontani banchi di pesci,
riempite le stive di corpi argentini
dopo giorni di spuma allo scafo
tornano tutte al porto,
di solito.

Ulisse. Omero, la grande avventura del ritorno, dell’eroe dalle molte forme e dai molti colori. E invece, due sedie. Due sedie sulla scogliera, dondolando, parlandosi, lasciando parlare il vento, aspettano il ritorno di un qualche peschereccio, di un tempo lontano. Di solito ritornano, le navi dei pescatori; girano al largo, si imbattono in mille tempeste, ma salde ritornano. Il ritmo è ampio, disteso, il discorso è un’onda placida, intervallata dalle congiunzioni, all’inizio del verso, in anafora.

Le parole si intrecciano come il vento che attraversa l’intrico di vimini delle due sedie, e le vele dei pescherecci hanno qualcosa di sommesso e di eroico insieme. C’era un poeta, fino a qualche tempo fa, che sapeva collegare allo stesso modo le storie di oggi e canti antichi. Si chiamava Derek Walcott, afroamericano caraibico e innamorato dei greci. Noé Albergati, che abbiamo già ospitato su questo blog, si mette sullo stesso cammino, capace di donare vita agli oggetti, farli parlare. Il poeta è un mago che rivivisce l’inanimato; ausculta l’anima delle cose, la sente, e trasforma quel sentire in parole.

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