Juan Carlos Galeano: Amazzonia cantata in versi

Miriam Spadafora, Amazzonia di Juan Carlos Galeano

È uscito nel 2022 anche in Italia il libro di poesie di Juan Carlos Galeano: Amazzonia, con la traduzione a cura di Silvia Valisa, per la collana di poesia di Del Vecchio Editore di Perelun, curata da Paola Del Zoppo.

Di questo autore avevo parlato nel 2016, quando avevo letto alcune sue liriche sulla rivista Poesia di Crocetti Editore. Grazie a quell’articolo, tramite la redazione del blog, ho avuto il piacere di ricevere il magnifico libro di poesie di Galeano, di cui vi voglio parlare.

La poesia di Juan Carlos Galeano ha il dono di essere semplice, quasi infantile nelle argomentazioni e, paradossalmente, è proprio la sua semplicità a renderla complessa e incomprensibile a chi non è disposto a mettere in discussione i suoi preconcetti e la sua visione artificiale della vita.

Per quanto riguarda la musicalità del verso la si può apprezzare nella sua lingua originale: lo spagnolo, poiché la traduzione non riesce sempre a ricreare quella musica che il poeta ha costruito, nonostante la perizia della traduttrice.

Torniamo al libro e ai suoi versi pieni di messaggi, di racconti, attraverso i quali il poeta scandaglia tutte le problematiche che affliggono l’uomo moderno, scegliendo un linguaggio essenziale mai violento, come nella poesia che segue. In pochi distici, che in italiano formano versi molto più lunghi, è tratteggiata la storia del continente americano.

Amazzonia, foto di Su San Lee

Storia

Al Nord cacciavamo molti bufali
e il lardo ci scaldava durante l’inverno.

Ma nella foresta ci hanno detto che per avere più luce
dovevamo gettare più alberi nel falò del sole.

Un giorno ci siamo lasciati prendere la mano e ci abbiamo gettato dentro tutta la foresta
con gli uccelli, i pesci e i fiumi.

Adesso passiamo il tempo a guardare le stelle
e il menù della caccia non cambia quasi mai.

Oggi abbiamo cacciato una nuvola
che andava a fare inverno a New York.

Nelle liriche di Galeano non c’è mai quel sentimento un po’ appiccicaticcio e usato fino ad essere abusato, di malinconia, di pessimismo e vittimismo, tipico della nostra poesia occidentale. C’è sempre un Noi che è chiamato in causa, nel quale il poeta è parte integrante, è agente, è insieme al resto dell’umanità, non è vittima ma causa e la poesia, nella sua innocenza infinita, ci ammonisce che non possiamo fuggire dalle conseguenze delle nostre azioni.

Apprendimento

Ai primi lampi di guerra e buchi nei muri,
i miei genitori corsero nella foresta.

Per salvarmi mi dipinsero coi colori di un pappagallo
e mi portarono a vivere tra gli indigeni.

Mio fratello crebbe in città, studiando la vita interiore
delle pietre e fischiettando musica classica.

Quando mi riportarono indietro,, i miei leggevano i giornali
e la casa brillava negli specchi.

Quanto a me, ero felice guardando le previsioni del tempo.

Nelle società evolute non facciamo altro che inseguire un benessere economico, fatto per lo più di bisogni indotti e vuoti. È una guerra dalla quale ci si salva solo ritrovando la foresta, i colori e la grandezza dei pappagalli, abiurando la superbia umana nella catarsi dell’accettazione del tempo e della sua natura insondabile.

Tikuna, popolazione autoctona del Brasile (credits: SkyNews)
Tikuna, popolazione autoctona dell’Amazzonia (credits: SkyNews)

Vomito

Molti indigeni non riescono a liberarsi dall’incubo.
I laghi e i fiumi vomitano animali, alberi e persone.
“ Ci dev’essere qualcosa che ha fatto male ai fiumi e ai laghi “, dice qualcuno.
Il vomito copre la terra e si espande per l’universo.
È una buona cosa che gli indigeni costruiscano le case a forma di barca.

L’eruzione dei vulcani potrebbe dare l’idea di quando si rigetta il cibo mal digerito ma, a noi uomini degli anni Venti del Duemila più che del vomito della lava dei vulcani, questa poesia ci fa venire in mente i catastrofici disastri, dovuti ai cambiamenti climatici. Persone, animali e piante sono tutti coinvolti in un destino comune, eppure una speranza il poeta ce la lascia: sono gli indigeni e la loro capacità di vivere in comunione con la Natura, rispettando la sua sovranità assoluta.

Tikuna

( ai miei amici Tikuna )

Al ragazzo Tikuna non piace andare in paese.

Quando va per le strade, le motociclette e le macchine
lo urtano e gli fanno molta paura.

Il giorno di Natale, trova i figli
delle motociclette e delle macchine in un negozio di giocattoli.

Con i soldi che ha, li compra e li getta in un sacco.

La mattina dopo, porta i piccoli a fare un giro nella sua canoa.
Si accerta di aver chiuso bene il sacco prima di gettarli nel fiume.

Alla maniera dei racconti tikunas

Juan Carlos Galeano, nato in Colombia ma trapiantato negli Stati Uniti dal 1983, dove vive e insegna Lingua e letteratura spagnola, presso l’università della Florida, è un appassionato di studi antropologici, relativi alla sua terra natale: l’Amazzonia. Ha fatto viaggi e girato documentari per divulgare la cultura delle popolazioni indigene amazzoniche, per stimolare al rispetto della foresta, del fiume e del suo ecosistema vegetale, animale e umano.

I Tikuna sono un popolo che abita nella foresta amazzonica, il polmone del pianeta, che l’atroce ingordigia dell’uomo delle città sta mettendo in pericolo con i disboscamenti e quant’altro. Si è persa l’umiltà di considerarsi piccoli e insignificanti sul creato, si è perso ormai da secoli il rispetto quasi religioso per la Natura che è nostra madre, anche quando la tradiamo, certi di esserci evoluti.

Veduta dall'alto dell'Amazzonia

Gioco

ad George Auzenne in memoria

I fratelli mare e montagna usano il fiume che li unisce come una corda per giocare.
Un giorno il mare si mette a strattonare la montagna, e lei si ribalta
con il suo calderone di vulcani sulle terre, le case e la gente.

Quando il mare meno se lo aspetta, la montagna tira il fiume
e il mare affoga centinaia di animali e di pescatori che vivono sulla riva.

“ La cosa peggiore di tutte è che un fiume così grande e grosso si presti al gioco “,
dice una vecchia.

La gente prega l’universo e le stelle che insegnino
a quei due maleducati le buone maniere.

L’universo e le stelle dicono che non vogliono intromettersi nelle beghe di famiglia.

L’essenza dell’umanità è perfettamente rappresentata in questa lirica giocosa, che strappa un sorriso, nel quale si accomunano fattori naturali e sentimenti umani. La gente prega senza capire, prega per giudicare, per delegare, ma l’immensità non teme una montagna e neppure il mare, che giocano a strattonare un fiume, che a sua volta sparge dolore e sangue sulla riva.

In questo susseguirsi di versi allegorici e divertenti conosciamo dell’Amazzonia e del suo magnifico habitat lo spirito, quello che da sempre calpesta questa terra con umiltà e ironia, con religioso rispetto per il creato.

Per chi ama la poesia, Amazzonia di Juan Carlos Galeano, sarà una scoperta e una piacevole lettura.

Assolutamente da non perdere.

 

In copertina: illustrazione di Miriam Spadafora


Juan Carlos Galeano è nato a Florencia Caquetà nell’Amazzonia colombiana nel 1958. È emigrato negli Stati Uniti, dove insegna all’università statale della Florida Poesia latinoamericana e cultura dei popoli amazzonici. È un fervido studioso e soprattutto un divulgatore ha infatti al suo attivo documentari e due antologie, legate ai miti amazzonici.

Quest’anno ha partecipato al Festival della Poesia Ambientale a Roma, presso l’Università Pontificia Antonianum, per presentare il suo libro di poesie Amazzonia, che è il secondo. Il primo è uscito nel 2011 dal titolo Yakumama, che potremmo tradurre Madre di tutti gli essere dell’acqua. Il protagonista assoluto è il Rio delle Amazzoni, attorno al quale la vita esplode in tutta la sua immensità, al quale Galeano ha dedicato un documentario dal titolo El Rio.

Silvia Leuzzi
Silvia Leuzzi

Ho un diploma magistrale e lavoro come impiegata nella scuola pubblica da oltre trent'anni. Sono sposata con due figli, di cui uno disabile psichico. Sono impegnata per i diritti delle persone disabili, delle donne e sindacali. Scrivo per diletto e ho al mio attivo tre libri e numerosi premi di poesia e narrativa.