Fadwà Tūqān: il grido lirico di una palestinese

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Il diluvio e l’albero

Il giorno dell’uragano diabolico infuriò e si diffuse
il giorno del diluvio nero
rive selvagge lo respinsero
sulla buona, verde terra.
Gridarono, e attraverso cieli occidentali ripeterono
dando eco alla loro lieta novella:
L’albero è caduto!
Il tronco gigante si è spezzato, non hanno lasciato
le tempeste
che resti di vita d’albero!

*

Ma l’albero è veramente caduto?
Perdono per i nostri rossi ruscelli
perdono per le radici dissetate
dal vino versato dai cadaveri
perdono per le radici arabe
che penetrano come rocce profonde
e si estendono lontano in profondità.

*

L’albero si solleverà
l’albero e i rami si solleveranno
saliranno risate
in direzione del sole
e torneranno gli uccelli
dovranno tornare
torneranno gli uccelli
torneranno.

Non possiamo inerpicarci nella scivolosa e spinosa questione palestinese, che ci vede spettatori impotenti e colpevoli di una tragedia senza fine. Possiamo invece conoscere il pensiero e l’anima di questo popolo martoriato dal 1948 a oggi, attraverso la letteratura, la poesia prodotta da illustri autrici e autori. Per questo noi, che scaviamo nella sabbia, per scovare storie sepolte, vogliamo ricordare una poeta palestinese, che ha partecipato attivamente alla lotta con i suoi versi e la sua vita: Fadwà Tūqān.

Nata a Nablus nel 1917 da un’importante famiglia molto conservatrice, fu costretta dal padre a lasciare gli studi dopo la scuola primaria. Sarà il fratello Ibrahim (1905-1941), noto scrittore e militante per la causa palestinese, a farle da maestro, facendole conoscere la poesia araba e molti poeti, essendo lui stesso un poeta molto stimato. Fadwà nel 1946 gli dedicherà la sua prima opera poetica, dal titolo Mio Fratello Ibrahim, elaborando in versi il lutto e il grande amore per questo fratello e al tempo stesso per la sua terra di Palestina.

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Come nasce una canzone

Le canzoni nostre le prendiamo
dal tuo tormentato e sciolto cuore;
e sotto il peso del buio e della notte
le impastiamo con la luce, con incenso,
con amore e con voti,
le carichiamo del vigor delle rocce e del salice;
dopo di che le restituiremo al tuo cuore,
puro e trasparente quale cristallo
oh! nostro lontano e paziente popolo.

Nel 1948 perde il padre, che tanto la opprimeva, ma non può godere di questa nuova condizione di donna libera, una nuova sciagura, immensa e impensabile si abbatte sulla Palestina. È la Nakba, la grande catastrofe, una piaga che sembra non trovare cura, di cui tutti siamo colpevoli, che ben descrive Simone Sibilio, insegnante di lingue arabe e profondo conoscitore di questa storia:

Il 1948 rappresenta il primo imponente luogo di memoria traumatica per il popolo palestinese, sito di un intraducibile terrore: in quanto momento di sradicamento violento e dispersione irrimediabile nello spazio e nel tempo[1].

Quello sarà «Il giorno dell’uragano diabolico infuriò e si diffuse// il giorno del diluvio nero…» ma, in tanto grigiore e dolore, la poeta lascia spazio alla speranza, in quei versi finali che vibrano perfino sul foglio. È in quel ripetere fino allo stordimento del verbo «tornare, torneranno» riferito agli uccelli, fuggiti come i palestinesi dalle loro terre.

Fadwa Tuqan
Fadwa Tuqan (credits: laltrofemminile.it)

Fa impressione pensare che in tutti questi anni la situazione sia ancora peggiore di quel lontano 1948, senza che le grandi potenze “democratiche e civili” del globo facciano nulla, immobilizzate come mosche dalla tela del ragno.

Sono morti in piedi,
illuminando il cammino scintillanti come stelle,
baciando le labbra della vita.
Si sono alzati di fronte alla morte.
Poi sono scomparsi come il sole.

Sentite vibrare nelle parole la dura lotta contro l’occupazione, contro il dissolvimento di un popolo dalla storia millenaria, gettata nella polvere e nel sangue. Sono versi che ricordano la canzone della Resistenza italiana più famosa nel mondo, Bella Ciao. Perché tutti i cuori oppressi, scacciati e sottomessi hanno diritto di alzarsi di fronte alla morte con orgoglio e passione, senza distinzione di razza, colore e religione. La libertà è un diritto di tutti e non un privilegio per pochi.

Negli anni Cinquanta del secolo scorso Tūqān prende parte attiva alla vita politica e alla causa palestinese. Partecipa nel 1956 con la delegazione giordana alla conferenza di pace di Stoccolma e poi a seguire raggiungerà l’Olanda, l’Unione Sovietica e la Cina. Conosce sempre a Stoccolma nel 1959 il nostro poeta Salvatore Quasimodo, cui dedica dei versi, nei quali spiega l’amore profondo per la sua terra.

Io, poeta mio, ho nella mia cara patria
un innamorato che attende il mio ritorno.
È un amato compatriota, del mio paese natio;
e tutte le ricchezze del mondo
le stelle luminose e la luna
non mi faranno mai perdere il suo cuore
o vendere il suo dolce amore.
Perdona, o caro, l’orgoglio del mio cuore
al sentirti bisbigliare dolcemente:
«I tuoi occhi sono profondi e tu sei bella »

Credits: Informare
(Credits: Informare)

Fadwà è ricordata anche come una femminista araba, perché sin da giovanissima ha sfidato le regole imposte alle donne dalla società conservatrice, istituendo una scuola per ragazze palestinesi, e nei suoi libri non dimentica mai di incoraggiare le sue sorelle di genere a non piegare la testa, a osare.

Fermarmi sul ponte

Ahimè! Mendicare, sì, un permesso di attraversata!
Soffocare, perdere il fiato
Nel caldo del mezzodì
Sette ore di attesa
Ahi! Chi ha rotto le ali del tempo?
Chi ha paralizzato le gambe al giorno?
Il caldo mi flagella la fronte
Ed il sudore mi colma gli occhi di sale.
Ahimè! Migliaia di occhi
Sono fissi con calorosa ansia
Allo sportello dei permessi;
sono specchi di angoscia,
titoli di ansia e di pazienza.
Ahimè! Mendicare un permesso!
E la voce di un militante straniero
Scoppia furiosa come uno schiaffo
Sul volto della folla:
«Arabi…Disordine…Cani!…
Tornate indietro
Non venite vicino al cancello!
Indietro!…Cani!…»
Una mano sbatte con rabbia lo sportello dei permessi,
chiudendo ogni possibilità
in fronte alla folla che preme.
Umiliata la mia umanità,
pieno di amarezza il mio cuore
e il mio sangue è tutto veleno e fuco!
«Arabi! Disordine! Cani!»
O santa vendetta del mio popolo offeso!
Ormai ho solo da attendere,
ma il momento giungerà…
il momento della giustizia e della vendetta!

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«Umiliata la mia umanità»: quale espressione più chiara per entrare nel vivo delle condizioni assurde in cui vive una palestinese, la cui unica colpa, è stata quella di nascere su quella famosa terra promessa, di biblica memoria, così ricca, così appetibile.

Negli anni Sessanta Fadwà si trasferisce in Inghilterra a Oxford, per approfondire lo studio della lingua inglese e della letteratura. Dopo qualche anno torna a Nablus e va a vivere fuori città, cercando un po’ di pace nella natura e nel silenzio, tenendosi lontana dagli impegni politici e istituzionali.

Non dura molto perché nel 1967 ci sarà un’altra grande sciagura: la Guerra dei Sei Giorni, che la costringerà a occuparsi nuovamente di politica e di pace. Negli anni Settanta sulla scia delle lotte non violente, i giovani palestinesi scendono nelle strade di Nablus e di altre città palestinesi, armati solo di pietre contro un esercito che spara ad altezza d’uomo, per ribellarsi contro l’occupazione dei loro territori, delle loro case, della loro identità e della loro libertà. La nostra poeta si stringe, per proteggere con i suoi versi infuocati, pieni d’amore, rabbia e dolore, a questi giovani disperati, che muoiono come mosche in mezzo alle strade polverose.

Pubblica nel 1991 su un giornale israeliano la lirica I Martiri dell’Intifada:

Hanno tracciato la rotta verso la vita
l’hanno intarsiata di corallo, di agata e di giovane forza
hanno innalzato i loro cuori
sui palmi di carbone, di brace e di pietra
E con questi hanno lapidato la bestia del cammino
Questo è il tempo di essere forti, sii forte
La loro voce è rimbombata alle orecchie del mondo
e il suo eco si è dispiegato fino ai confini del mondo
Questo è il tempo di essere forti
E loro sono diventati forti…
E sono morti in piedi
Illuminando il cammino
scintillanti come le stelle
baciando le labbra della vita.

Bambino tira un sasso a un carro armato durante la prima intifada
Bambino tira un sasso a un carro armato durante la prima intifada (credits: iStorica.it)

Nel 1977 è eletta al Consiglio di Amministrazione dell’Università di Nablus, di cui scriverà l’inno. È molto conosciuta nel mondo soprattutto come Poetessa della Pace e sembra che lo stesso generale israeliano Moshe Dayan abbia affermato che i versi di Tūqān recavano danno a Israele più di dieci attentati.

Fadwā Tūqān si spegne a Nablus nel 2003: indomita fino alla fine, ha girato il mondo con i suoi libri per far conoscere la Palestina, il suo dramma e la sua ricchezza infinita di cultura, che un disegno assurdo prova da decenni a distruggere, a infangare, coltivando un livore che non trova pace.

Mi basta…

Mi basta spegnermi nella sua terra
essere sotterrata in essa
dissolvermi e svanire nel suo terreno
rinascere erba sulla sua terra
rinascere fiore
sfogliato da mano di bambino cresciuto dal mio Paese
mi basta restare nel petto del mio Paese
come polvere
come erba
come fiore

 

Se l’articolo ti è piaciuto, leggi anche Salwa Salem, Con il vento nei capelli: una palestinese racconta


Bibliografia dei siti consultati, che vi invito a consultare per conoscere meglio l’autrice:

Francesca Trognoni, Fadwa Tuqan: tra Resistenza e poesia, su La macchina sognante, 1 luglio 2016
Iula Marzulli, Fadwa Tuqan_um al-shi’r al-falastini, su I sensi della poesia, 2 aprile 2018
Salvatore Galeone, “Mi basta” di Fadwa Tuqan, la poesia che sogna un futuro di pace, su Libreriamo, 15 febbraio 2024
Debora Menichetti, La poesia nel dì di domenica presenta “Felice nel suo grembo” di Fadwa Tuqan, su L’Altro Femminile.
Debora Menichetti, La poesia nel dì di domenica presenta “Un attimo” di Fadwa Tuqan, su L‘Altro Femminile.
Muna Khalidi, “Questa terra, sorella mia, è una donna”: l’eredità di Fadwa Tuqan come icona femminista, su Invicta Palestina, 30 settembre 2022
Sergio Di Vito, “Resistenza” è femminile: la poesia di Fadwa Tuqan, su Convegno Resistenze 2020, 22 febbraio 2020
Floriana Coppola, Due poetesse e la guerra, su Letterate Magazine, 30 marzo 2024
Università della terza età di Cinisello Balsamo, Poeti Palestinesi, Fadwa Tuqan, dispensa.

In copertina: Fotografia di Belal Khaled, Anadolu Agency.

Silvia Leuzzi
Silvia Leuzzi

Ho un diploma magistrale e lavoro come impiegata nella scuola pubblica da oltre trent'anni. Sono sposata con due figli, di cui uno disabile psichico. Sono impegnata per i diritti delle persone disabili, delle donne e sindacali. Scrivo per diletto e ho al mio attivo tre libri e numerosi premi di poesia e narrativa.