Un contenitore di stramberie, ecco cos’era Petricchio.
Petricchio è un borgo della Basilicata, fittizio ma tremendamente emblematico, rappresentazione accurata dei tanti paesini italiani un po’ sperduti, arroccati su qualche montagna o incastrati tra le colline, in cui tutti si conoscono. È un miscuglio di pettegolezzi, imprescindibili regole non scritte e innumerevoli superstizioni. È un luogo che sopravvive allo scorrere del tempo nonostante lo spopolamento e la sfavorevole collocazione in zona sismica tre.
I gemelli si dibattevano tra la voglia di andare altrove a quella di andarci ancora una volta – come quando l’amore è finito ma per una forma di delicatezza te ne vai dopo Natale, per non rovinare le feste.
I gemelli sono Mapi e Lupo, madre petricchiese e padre bresciano, che ogni anno sono soliti trascorre vari mesi a Petricchio, un mondo completamente diverso dal Nord Italia, o “Altitalia”, da cui provengono. Pur essendo considerati forestieri dagli abitanti del borgo, sono perfettamente immersi nelle complesse dinamiche del luogo e ogni volta che vi abitano si “appetricchiano” sempre di più, ossia si ambientano agli usi e costumi locali. Sono due “cuori d’altri tempi”, che si emozionano davanti a un Autogrill ed estate dopo estate trascorrono il tempo inventandosi modi sempre nuovi per divertirsi in un luogo di meno di trenta abitanti e da cui il mare è solo un irraggiungibile miraggio. A Petricchio il mare si intravede infatti in lontananza, ma i cento ventitré tornanti lo rendono un elemento paesaggistico più che una meta a cui ambire. Il linguaggio utilizzato da Fabienne Agliardi è assai inusuale, costellato di parole dialettali che diventano via via più comprensibili durante la lettura. Alcuni modi di dire sono particolarmente affascinanti: strolicare significa astrologare o predire eventi come un astrologo, e quindi fare congetture; nonneccosa è l’espressione utilizzata per consigliare di lasciar perdere o dare un diniego preventivo, capocrai la risposta prestabilita a chi prende tempo sgrullonando, ossia oziando.
La lingua di Petricchio è per certi versi una parlata locale, per altri una sorta di lessico familiare esteso ad un intero paesino e che con esso si evolve continuamente. Come nel celebre Lessico Famigliare di Natalia Ginzburg, le espressioni gergali sono indissolubilmente legate a ricordi di infanzia. In entrambi i romanzi i personaggi adulti, pronunciando quelle espressioni colloquiali e quei modi espressivi caratteristici, vengono catapultati indietro nel tempo della giovinezza.
Per facilitare la lettura, “Appetricchio” è corredato in chiusura da un piccolo glossario del petricchiese, vernacolo piuttosto diverso dall’italiano e a primo acchito incomprensibile. Posso però assicurarvi che giunti alla fine vi sarete apperiticchiati anche voi, e riuscirete a capire il dialetto lucano ed apprezzare le sue sfumature.
Appetricchio è dunque un romanzo delicato, con un lessico atipico e qualche ben assestato colpo di scena, il cui punto focale è il rapporto tra una manciata di individui e un luogo.
Ciascuno ha un luogo a cui è affezionato, in cui ha le proprie radici o dove desidera costruire orizzonti futuri. In tanti, tantissimi altri romanzi ritroviamo questo tema universale in diverse sfumature[1]. Tale attaccamento può vacillare una volta che quel determinato posto viene travolto dal progresso, come narrato da Juli Zeh nel suo Turbine, in cui il processo di installazione di una decina di turbine eoliche in un paesino di duecento abitanti, Unterleuten, disfa improvvisamente equilibri faticosamente costruiti e causa una profonda disillusione nei suoi abitanti. Altre volte le circostanze stravolgono completamente città o paesi, costringendo chi li abita a resistere o ad andarsene: è il caso degli uragani, come il famoso Katrina, che ha completamente devastato New Orleans, o dell’innalzamento del livello del mare che sommerge intere isole, come raccontato rispettivamente da Margaret Wilkerson Sexton in La libertà possibile e da Sandro Frizziero in Sommersione. Eppure, in ognuno di questi casi rimane un rapporto tra il luogo e chi ci vive o ci ha vissuto, che può talvolta essere talmente forte da spingere le persone a rimanerci per sempre, o abbastanza forte da farle tornare spinte da un profondo senso di malinconia.
Consiglio quindi questo romanzo a chi comprende questa duplicità, a chi sa cogliere la poesia dei luoghi, e a chi vuole trovare risposta a qualche interrogativo, come quello che si trova in chiusura al romanzo:
Cosa ci fa innamorare e poi stancare di un luogo? E perché poi si sente il desiderio di tornarci?
In copertina: Dumitru Ghiatza, Villaggio sulle montagne, olio su tela.