Il primo stasimo dell’Antigone: Sofocle e l’ambiguità

Edipo a colono, Jean Harriet, 1798 Antigone

Antigone: seconda tragedia di Sofocle, forse la più celebre. Antigone. Creonte. Due modi di intendere il mondo, due realtà opposte e inconciliabili. La forza dell’etica, della spiritualità, della coerenza da una parte, la razionalità della realpolitik, del compromesso sofistico, dall’altra. In Sofocle si guardano, si scrutano, i due opposti; quasi si bilanciano. Quasi sembra che Sofocle, in certi momenti, ceda alla ragionevolezza di Creonte, ne mostri il lato ineluttabile, impossibile da modificare.

Non stiamo a ripercorrere la vicenda, peraltro nota; chi però avesse bisogno di una rispolverata, può trovare un breve riassuntino nell’omonima pagina online della Treccani. Antigone, dunque si richiama ai valori tradizionali, religiosi: la sepoltura del fratello va data, anche se ha violato le leggi di Tebe, anche se ha marciato in armi contro la sua stessa città; Creonte si richiama invece alle leggi umane, che non possono essere trasgredite, pena la caduta nell’anarchia, secondo nome del caos.

In filigrana, possiamo evidenziare una delle più grandi diatribe dell’antica Grecia, l’inquietudine dell’uomo greco di fronte a due grandi entità: il Kaos e il Kosmos, il disordine assoluto, che era in principio, come si dice nella Teogonia di Esiodo, e il Cosmo, cioè l’universo ordinato, bello, regolato (ricordiamo che kosmos, in greco, significa letteralmente “ornamento”) che scaturisce dopo la grande guerra di Zeus contro suo padre, Kronos. È la stessa inquietudine di Eschilo, che nella sua Orestea condurrà il giovane protagonista dall’età della vendetta all’età della ragione, e della giustizia. Alla fine della trilogia eschilea troviamo infatti la rappresentazione di un tribunale divino, con tanto di dei avvocati quali Atena e Apollo.

Ci troviamo di fronte alla sublimazione artistica di quanto è avvenuto nella Storia: un gruppo di persone molto ristretto, quale poteva essere l’Atene dell’epoca, da una tribù primitiva si accinge a diventare una civiltà, con un suo ordine, delle sue istituzioni, una sua vita civile. Ma tutto questo non è un cambiamento indolore. Al contrario: Zeus deve sconfiggere Kronos; Oreste deve uccidere Agamennone; parimenti Creonte, rappresentante dell’ordine, del kosmos della piccola Tebe, dovrà uccidere Antigone?

Lord Friedrich Leighton, Antigone, 1882
Lord Friedrich Leighton, Antigone, 1882

Su questo l’uomo greco si ferma, e si interroga. Non è più il padrone, il padre, il sovrano che viene ucciso per permettere lo sviluppo della civiltà: è una ragazzina, che si richiama a delle leggi divine precedenti la legge umana: la pietà, il rispetto per ogni essere vivente, il rispetto per la morte, indipendentemente da chi sia il condannato, da quanto male abbia fatto in vita. Non c’è dubbio che Antigone sia stata celebrata dai romantici, che sia stata la quintessenza dell’eroe romantico; non c’è dubbio che Alfieri ne abbia fatto una piccola martire, in una tendenza che culminerà con un autore rivoluzionario, comunista come Brecht.

I greci, invece, erano molto meno propagandistici e ideologici. Bene e male non si dividono, ma si compenetrano. La tragedia è questo: è l’impossibilità di scegliere, di prendere parte perché entrambe le ragioni in conflitto si equivalgono. I grandi conflitti, anche del Novecento, anche dei giorni nostri, hanno questa caratteristica: scegliere non è così semplice. La realtà, al di là di ciò che le nostre ideologie possono farci credere o sognare, è ambigua, e lacerata.

L’ambiguità è forse il concetto che più appare nell’Antigone, che, anzi, è punita forse proprio per questo: lei manca di ambiguità, manca di dubbi. Lei è certa, fortissimamente certa della propria ragione, senza ombra di ripensamento. E anche Creonte è certo delle sue ragioni, e il muro contro muro porta a un epilogo di morte e distruzione. Se il punto di vista dei protagonisti è unilaterale, quello di Sofocle è ambiguo, e cerca di comprenderli entrambi: dal suo punto di vista, sono valide entrambe le ragioni, e questo genera la catastrofe.

Non è un caso che nel primo stasimo, cioè uno dei canti del coro, Sofocle parli proprio dell’ambiguità, e dell’ambiguità nell’essere umano. Non solo il tragico è ambiguo, non solo la realtà è ambigua, ma è ambiguo l’uomo stesso, volto a grandi imprese e ad azioni terribili; potente ma incapace di gestire questo potere. Lo leggiamo in nostra traduzione:

 

Molti i prodigi, e folgoranti,
ma nulla turba più dell’uomo folgorante:
costui varca il mare
che gonfio intorno muggisce
quando l’Austro danza in inverno;
anno per anno frange e rivolta
colei che mai conobbe fatica e tormento,
la dea superna, la Terra.

E cattura con le reti le stirpi
degli uccelli dalla mente leggiadra
e le fiere dei boschi e tutti coloro
che abitano i recessi del mare profondo,
l’uomo dall’ingegno che spazia lontano;
tiene in pugno con stratagemmi
le belve selvatiche e dei monti,
e doma il cavallo dal collo villoso,
piega sotto il giogo
l’infaticabile toro degli altipiani.

Apprese la parola e l’alato pensiero,
e il bisogno di porre leggi nella rocca,
evitando i dardi del gelo e della pioggia
che cade dal cielo, l’uomo dalle mille risorse,
per nulla indifeso di fronte al futuro.
L’Ade soltanto non potrà fuggire
sebbene sappia trovare rimedi
ad inguaribili malattie.

Esperto padrone d’arguti mestieri
al di sopra di ogni limite
ora il bene, ora il male esplora;
e se onora le leggi della sua terra
e la giustizia divina, innalza sé e la patria;
senza patria, chi sceglie il male per ardimento.
Che non sieda al mio focolare,
mai condivida i miei pensieri
costui, che tanto ha osato.

Antoni Brodowski, Edipo e Antigone, 1828 (particolare)
Antoni Brodowski, Edipo e Antigone, 1828 (particolare)

«Πολλά τά δεινά κου’δέν ἀν- / θρώπου δεινότερον πέλει[2]», così suona nell’originale. Una delle traduzioni più diffuse è quella Maria Grazia Ciani: «Molte meraviglie vi sono al mondo, / ma nessuna meraviglia è pari all’uomo».

Se andiamo però a vedere altre traduzioni, scopriamo che “meraviglie” (tà deinà, in greco) è tradotto sempre in modo diverso: “meraviglioso”, sì, ma anche “tremendo”, terribile. E anche mirabile, e sconvolgente. Tutti questi termini sono contenuti nel greco deinòs: speculare al latino monstrum, è tutto ciò che è incredibile a vedersi, meraviglioso, eppure, a volte, mostruoso.

Tutto ciò rende perfettamente l’ambiguità umana. Noi l’abbiamo tradotto con “folgorante” per rendere l’ambiguità: la folgore ammalia e acceca, atterra e obnubila. E la folgore è attributo divino: deinòs, infatti, indica innanzitutto la forza divina, e solo in un secondo momento questa forza, questa caratteristica passa all’uomo.  Deiné, al femminile, è utilizzato nella Medea di Euripide proprio per descrivere Medea, che è donna e maga, tremenda e prodigiosa.

E anche l’essere umano è sempre duplice: ora il bene, ora il male esplora. è incapace di percorrere un’unica via, nonostante la sua mente, il suo ingegno «che spazia lontano», di colui che sente forte il bisogno[3] della civiltà e delle istituzioni. Ma da questo bisogno, nasce un potere e una responsabilità difficili da gestire: se riuscirà a rispettare le leggi della sua terra e la giustizia degli dei, sarà considerato grande; ma il canto si chiude con la condanna ferrea, decisa contro chi sceglierà il male. Le leggi della sua terra e la giustizia degli dei.

Oggi siamo poco abituati anche solo a farci un’idea di cosa voglia dire; eppure per un ateniese del V secolo, tutto l’equilibrio della sua vita si reggeva proprio su queste due realtà: l’etica, che si presumeva di origine divina, e la politica, ovvero l’arte della gestione della città. Ma che fare quando le leggi degli uomini cozzano con le leggi divine? A questo, il coro degli anziani non sa rispondere.

La tragedia di Antigone dunque è una grande tragedia non solo sullo Stato, sulle leggi, ma sul potere insito in ogni essere umano: sulla Storia, che in ogni momento chiede il conto delle azioni umane. La duplicità dell’umano rispecchia la duplicità del divino, ma, a differenza degli dèi, gli uomini non hanno una seconda, una terza possibilità. Gli uomini, come gli dèi. falliscono, ma per loro la sorte è implacabile. Chiunque sia ad aver scelto il male per ardimento, tra Creonte e Antigone, quello di Sofocle è un monito all’essere umano, alle immense capacità dell’intelletto che possono però scatenare effetti deleteri.

E questo è estremamente attuale, in un’epoca in cui l’essere umano ha espanso le proprie forze produttive, la propria civiltà al punto da mettere in dubbio la sua stessa sopravvivenza. E se l’inquietudine di Sofocle assomiglia a quella di Eschilo, non c’è però una vera e propria colpa. Nei Persiani di Eschilo, per esempio, Serse è punito per la sua superbia, per essersi fatto più dio degli dèi.

E così Agamennone è superbo e tracotante, e dunque la tragedia di Oreste merita uno scioglimento, merita una soluzione. In Sofocle no. In Sofocle l’uomo si fa dio, e proprio perché si fa dio è meraviglioso e tremendo, è prodigioso e orribile, e non c’è alcun altro dio che lo punisca, alcun fato: egli è Dio, egli è la potenza creatrice e distruttrice, e come tale non ha alcuna punizione se non le conseguenze delle proprie azioni. E anche questo è tremendamente attuale.

 


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Gabriele Stilli
Gabriele Stilli

In tenera età sono stato stregato da quelle cose che si scrivono andando a capo spesso, e gli effetti si vedono ancora. Mi sono rassegnato, da diversi anni, a includere l’arte tra le discipline umanistiche e non nel rigoroso ambito delle scienze. Nutro ancora qualche dubbio, però.