Gianrico Carofiglio le tre del mattino

Le tre del mattino di Gianrico Carofiglio: imparare a perdersi

Nelle ultime pagine del romanzo Le tre del mattino di Gianrico Carofiglio spunta una parola meravigliosa: Balikwas. È un termine assai difficile da tradurre, che nelle Filippine – in lingua Tagalog – è utilizzato per descrivere la sensazione che si prova saltando all’improvviso in un’altra situazione e sentendosi sorpresi o cambiando il proprio punto di vista. L’improvviso sbalordimento che questa parola vuole esprimere è il fondamento stesso su cui è costruita l’intera vicenda di Antonio e di suo padre, che si scoprono per la prima volta sconosciuti e distanti, e tentano di cucire, con esitazione ma spinti da un’autentica volontà, il loro sfilacciato rapporto.

Ad Antonio, un liceale scontroso, è diagnosticata l’epilessia. Il miglior dottore che i genitori riescono a rintracciare è a Marsiglia, così vi si recano, tutti e tre insieme, avvolti da una cortina di imbarazzo e affettazione. Il luminare prescrive ad Antonio degli psicofarmaci che, nei tre anni a venire, risolvono gli attacchi epilettici e lo fanno rientrare in una condizione di normalità adolescenziale, in cui cerca di essere come tutti gli altri e nel contempo sogna di essere diverso, esattamente come ogni suo coetaneo.

Trascorsi i tre anni, arriva il fatidico momento di una visita di controllo, e Antonio ritorna a Marsiglia, stavolta solo con il padre, un professore e matematico.

In una città carica di energia, che pullula di scene di selvaggia e ritmica bellezza, i due non parlano, ma percepiscono uno l’imbarazzo dell’altro.

Mi accorsi di non avere le parole e i modi, per rivolgermi a mio padre. La cosa mi diede una fitta inattesa di dispiacere, e mi fece anche sentire in imbarazzo. Come se la mia regola di coerenza personale e lo statuto della mia ribellione familiare fossero stati incrinati da quel moto involontario dell’anima.

La vicenda si carica allora di un senso di necessità, del bisogno di trovare uno spiraglio per far breccia nella bolla di distacco entro cui il padre si rinchiude – o dentro cui lui ha sempre relegato il padre – e tutto deve avvenire lì, a Marsiglia, in quei giorni. Poche ore per conoscersi, per scoprirsi sotto una luce nuova. Vengono così abbattute le convenzioni e i ruoli, i due si aprono l’un l’altro, e, finalmente, si incontrano.

Così, lasciando da parte imbarazzi ed esitazioni, si raccontano nelle loro vulnerabilità, desideri e pensieri reconditi, mentre si perdono in una città dalle mille contraddizioni.

Carofiglio imparare a perdersi

Non ricordo da quanto tempo non mi succede di avere davanti due giorni senza nessun impegno, senza nulla di specifico da fare, senza nessun dovere. Questo, è strano. […] Te ne accorgi dopo anni. Ti carichi di cose superflue, intendo oggetti, impegni, relazioni personali e tutte queste cose diventano altrettanti fili invisibili che ti avviluppano.

Entrano in un pornoshop, trascorrono la notte in un bar, fanno una gita in barca, conoscono due donne, vanno ad una festa con loro, tutto in una manciata di ore, lasciandosi trasportare dai sensi e dagli impulsi improvvisi, senza dover rispettare orari o schemi. Parlano di musica, letteratura, matematica, facendo emergere la poliedricità di interessi di Carofiglio, che ama infarcire i suoi testi di rimandi ad altri autori, notizie scientifiche, curiosità di ogni genere.

È un romanzo che non si limita alla descrizione di un’incomunicabilità generazionale e familiare, e che nemmeno tenta di risolverla in alcun modo facendo della pedagogia spicciola.

È assai piacevole, a tratti persino lirico e struggente, nella sua linearità.

Così cercammo di imparare a perderci. In breve ci colse una leggera febbre dell’anima: pensavamo in modo diverso, vedevamo cose – dentro e fuori di noi – di cui altrimenti non ci saremmo mai accorti.

Dopo la lettura rimane questo: un vago desiderio di imparare a perdersi.

 


In copertina: Susanne Nillson, Street

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