«E questa è la galleria degli specchi!» cinguetta allegro il marchese di Pomponne, le labbra appena increspate in una smorfia superba.
Dietro di lui, disposti in ordinata schiera, dieci nobiluomini di vario rango annuiscono con convinzione. Dietro di loro, disposti in ordinata schiera, paggi, maggiordomi in livrea, servi e sottoservi non annuiscono solo perché per contratto la linea del loro mento deve mantenersi costantemente perpendicolare a quella del loro collo. Gli occhi però possono muoverli, e tutti li tengono ben piantati sull’uomo che già da mezz’ora il duca sta scarrozzando in giro per la reggia e che anche ora gli sta accanto. Un très petit personnage, come un testimone ebbe modo di definirlo: un ometto scuro di pelle e di barba, cui solo un maestoso turbante e una ricca zimarra turchesca riescono a conferire una certa dignità di stazza e di statura. Lo strano personaggio getta sulla stanza un’occhiata distratta, poi torna a esaminarsi la punta delle babbucce con rinnovato interesse.
«Sì… ehm… carina.» mormora il Turco. «Scusate, c’è mica un bagno da queste parti?»
Versailles, anno 1669 dell’era volgare. Dopo decenni trascorsi a darsi amichevoli pacche sulle spalle accusandosi vicendevolmente tra i denti di essere dei miscredenti schifosi, il clima di mutua tolleranza instauratosi tra il regno di Francia e l’impero ottomano ha cominciato ad essere turbato da alcuni spiacevoli episodi.
L’ambasciatore francese presso il Sultano è stato di punto in bianco sbattuto in galera e quindi rispedito a Parigi. I Turchi hanno inoltre cominciato la loro guerra contro l’impero degli Asburgo, una guerra alla quale la Francia del Re Sole sta ancora valutando se prendere parte.
Il Sultano Maometto IV capisce subito che, pur con tutta la sua potenza, l’avere come avversario un re come Luigi XIV potrebbe non essere esattamente la briscola della sua carriera. Decide così di rinsaldare i rapporti con il buon vecchio Gigi, e come gesto di buona volontà spedisce a Versailles un suo uomo di fiducia come ambasciatore. La scelta del Sultano cade su un funzionario di rango piuttosto modesto, ma di grande intelligenza; si chiama Solimano, ma durante il suo soggiorno francese tutti lo chiameranno con quello che credono essere il suo nome ed è invece una sua qualifica: Muta Ferraca, storpiatura dell’ottomano mute ferrikat, cioè “uomo d’importanza”.
Luigi XIV non è mal disposto verso l’ambasciatore, ma ha intenzione di mettere sin da subito le cose in chiaro. È stato il Sultano a mandare un ambasciatore, è stato il Sultano a voler trattare la pace tra Turchi e Francesi, quindi va da sé che il re di Francia si senta in diritto di presentarsi come il vincitore cui il vinto viene a leccare i piedi.
Ecco perché, non appena Solimano ‘Muta Ferraca’ arriva a Versailles, il re ce la mette tutta per sbattere dolorosamente in faccia a quel rozzo barbaro quel po’ po’ di corte barocca. Lo affida ai suoi sorridenti ministri perché gli caccino a forza negli occhi ogni grammo d’oro con cui il suo palazzo è ricoperto, lo fa accarezzare con guanti di seta perché appaia chiaro che lui se li può permettere. Poi, alla fine del giro turistico, appare il re.
«In fondo a una magnifica galleria» racconterà poi la Gazzetta di Francia «c’era un trono d’argento su un piedistallo a quattro gradini; il Re vi compariva in tutta la sua maestà vestito d’un broccato d’oro, ma talmente coperto di diamanti che sembrava fosse circondato di luce, e indossava un cappello splendente ornato delle più magnifiche piume».
Luigi aveva trent’anni, era nel pieno della sua grandeur e certo sapeva come far cascare la mandibola a chi lo guardava. Solimano però era forse un barbaro agli occhi dei Francesi, ma di sicuro non era uno scemo. Gli ci erano voluti cinque secondi per capire quale fosse il gioco del furbo francioso, e altri cinque gli ci erano voluti per capire quale fosse la strategia migliore da opporre a quel diluvio di fasto e ingioiellata superbia: l’impassibilità.
Le fontane di Versailles, le sue grotte, le sue gallerie, i suoi violini, i suoi lampadari non riuscirono a fargli inarcare un sopracciglio. Solimano s’inchinò davanti al re, gli rese omaggio a nome del Sultano e con voce piatta cominciò a sciorinare la lista delle sue richieste supplicando il sovrano, nella sua immensa benevolenza, di volerle considerare. Poi, non appena il rigido protocollo di corte glielo consentì, fece dietrofront e si ritirò nei suoi appartamenti. Tutti i diamanti di re Luigi piovvero simultaneamente al suolo.
I doveri di Muta Ferraca alla corte di Versailles non finirono lì: la sua missione diplomatica si protrasse ancora per qualche mese, prima di concludersi con un’ultima udienza dal re che lo lasciò piuttosto amareggiato per non essere riuscito a ottenere tutto quel che aveva richiesto per conto del suo Sultano. Se però Solimano se ne tornò in Turchia con l’amaro in bocca, Luigi se ne restò a Versailles coi vermi al fegato. Come si permetteva quel maledetto infedele di disprezzare la corte che l’universo mondo gli invidiava? Un’onta del genere andava in qualche modo lavata, e fu a questo punto che Jean-Baptiste Colbert, ministro delle finanze del regno di Francia, partorì un’idea geniale. Un Turco si era fatto beffe del re? La corte si sarebbe fatta beffe dei Turchi, e il ministro sapeva bene quali fossero i due uomini più adatti a portare a termine un simile compito.
Nel Settembre dello stesso anno Luigi XIV lasciò Versailles per andare a gustarsi i piaceri della caccia presso il suo castello di Chambord. Tutta la corte, ovviamente, si mosse con lui, e visto che a una buona battuta di caccia degna di questo nome non poteva mancare una colonna sonora il re si portò dietro anche il suo compositore preferito: Jean-Baptiste Lully. Gli aficionados di questo sito si ricorderanno probabilmente di lui per la sua morte idiota, che è già stata raccontata in un altro articolo. Nel 1670, tuttavia, Lully non solo è ancora vivo e vegeto, ma gode della stima e del favore incondizionato del sovrano, che gli commissiona opere su opere per il proprio divertimento e quello della sua corte affiancandogli spesso un collaboratore d’eccezione: Jean-Baptiste Poquelin, detto Molière.
Per circa un decennio i deux Baptistes (come già i contemporanei usavano chiamarli) costituiscono la punta di diamante dell’infinita pletora di artisti che il Re Sole raccoglie intorno a sé per la creazione dei sontuosi divertissements della corte di Versailles.
Insieme hanno anche ideato un genere di teatro musicale tutto nuovo, la comédie-ballet, una normale commedia recitata in cui hanno gran parte elaborati episodi costituiti da danze e brani di musica vocale; capolavori come Monsieur de Porceaugnac e Le Malade imaginaire (quest’ultimo con musica, però, di Marc-Antoine Charpentier) appartengono proprio a questo fortunato genere. Il 3 Ottobre 1670 anche la troupe di Molière raggiunge il resto della corte al castello di Chambord; sei giorni dopo il sipario si alza su quella che è da molti considerata una delle pièces più geniali del commediografo francese: Le Bourgeois Gentilhomme.
Protagonista dell’opera è un parvenu, un borghese che, arricchitosi col commercio, ora dà in smanie per entrare nella chiusa élite dell’aristocrazia francese. A tale scopo Monsieur Jourdain – questo è il suo nome – si circonda di un vasto corteggio di maestri di buone maniere che gli insegnino modo e maniera per far bella figura nell’alta società, con esiti prevedibilmente disastrosi.
Nonostante poi sia già sposato si mette a corteggiare la bella marchesa Dorimene con l’aiuto del conte Dorante, che però fa il doppio gioco e usa i soldi di Jourdain per corteggiarsi la marchesa per i casi suoi. A questo primo intreccio amoroso se ne aggiunge un secondo quando un giovane borghese, Cleonte, chiede a Jourdain la mano della figlia, ricevendone un netto rifiuto a causa delle sue origini plebee.
È a questo punto che Coviello, l’astuto servo di Cleonte, se ne esce con un piano furbo per ottenere la mano di Mademoiselle Jourdain per il suo padrone, ed è qui che il genio comico di Molière e Lully, istigato da Colbert [1], si manifesta in tutto il suo barocchissimo splendore.
Nel IV atto della commedia Coviello entra in scena vestito da turcimanno, annunciandosi a Monsieur Jourdain come l’interprete ufficiale del figlio del Gran Turco. Costui, spiega al borghese, era stato un intimo amico di suo padre, ed era giunto a Parigi apposta per fare la sua conoscenza e concedergli il più alto degli onori: l’incommensurabile titolo onorifico di Mamamouchy. Del discorso dell’interprete Jourdain ci capisce una fava, ma quando si parla di ricevere un qualche titolo nobiliare non è il caso di tirarsi indietro, quindi accetta con entusiasmo. Le note della celeberrima Marche pour la Céremonie des Turcs di Lully cominciano improvvisamente a risuonare da dietro le quinte.
Una truppa di dervisci irrompe sulla scena trascinandosi dietro tutto un ambaradam di tappeti, turbanti e candelabri. Quindi, dopo una breve invocazione ad Allah (un Allah akbar che uno dei primi copisti della partitura di Lully trascriverà con un buffo Alla alegue vert), entra in scena il Muftì per celebrare la cerimonia. La parte del Muftì, Lully la scrive per se stesso e la sua spassosa vociona da baritono[2]. Ritto in piedi, con uno smisurato turbante tutto farcito di candele accese in testa, dà inizio al rito con una formula in una raffazzonata lingua turca:
Se ti sabir,
Ti respondir;
Si non sabir,
Tazir, tazir.
Mi star Muftì,
Ti qui star ti?
Non intendir?
Tazir, tazir.
La messinscena dei finti Turchi prosegue poi con una serie di rituali, tutti rigorosamente compiuti a passo di danza su alcune delle più riuscite entrées di balletto del bravo Jean-Baptiste. “Dar turbanta e dar scarcina – Con galera e brigantina – Per defender Palestina!” tuona il Muftì, mentre i suoi fidi dervisci conciano il povero Jourdain in modo improponibile, rifilandogli anche una buona dose di bastonate.
Il borghese non ce la fa più, ma il Muftì lo consola ridendo sotto i baffi: “Non tener onta, – Questa star l’ultima affronta!” Poi, sempre danzando, i Turchi spariscono facendo sparire con loro ogni prova del misfatto: sulla scena resta solo Jourdain, tutto pesto e dolorante, infagottato in un lungo mantello turco e con un turbante che gli copre mezza faccia. Il resto della trama è quanto mai prevedibile: il figlio del Gran Turco si rivelerà poi non essere altri che Cleonte travestito, che riuscirà a ottenere la mano della bella figlia di Jourdain.
Il trionfo della commedia fu eclatante. Il re si tenne la pancia dalle risate, e diede ordine che la troupe di Molière restasse lì a Chabord per una serie di repliche; Molière, che aveva sostenuto con grandissimi applausi la parte del protagonista, fu colmato di onori e quattrini. Negli anni e nei secoli successivi il testo dell’opera fu tradotto almeno in una ventina di lingue e fece il giro di mezza Europa, strappando risate e ovazioni dalla Spagna alla Grecia, dalla Svezia all’Ungheria. Già alla fine del ‘600 la musica della cerimonia turca era arrivata in Inghilterra, importata dai musicisti francesi, primo passo di una notorietà che ancora oggi la accompagna.
Chi uscì meglio da quell’avventura, però, fu proprio Jean-Baptiste Lully. La sua buona stella, fino a quel momento, gli aveva fatto piovere in grembo favori che, in quanto italiano e figlio di un mugnaio, non avrebbe mai potuto neanche sognare in seno a una corte che disprezzava tanto i plebei quanto, in buona misura, gli italiani.
Il suo talento musicale gli aveva comprato l’invidiabile posizione di responsabile della musica della Chambre du Roy, ora la sua verve e la sua faccia di bronzo (per non cadere in una gratuita volgarità) stavano per guadagnargli una carica ancor più alta. Dopo una delle rappresentazioni del Bourgeois, mentre il re si stava ancora asciugando le lacrime, Lully andò a inchinarglisi ai piedi. “Sire” cominciò a flautare con la più fiorita delle vocine “nutro l’ambizione di diventare Segretario del Re.”
Il cuore di tutti i cortigiani che erano lì intorno ebbe un tonfo. Segretario del re! Una delle più alte cariche dello Stato! E un plebeo, un pizzaemandolino, un – cosa a quei tempi peggiore di tutte – un attore osava aspirarvi! Il re avrebbe potuto sbatterlo fuori a calci in faccia per una richiesta del genere, ma bontà sua non lo fece. Si mise invece a ridere, e – udite udite – accettò.
Si fece allora avanti il marchese di Louvois, uno dei ministri favoriti del re nonché uno degli uomini più potenti di Francia, facendo rispettosamente notare come il far ridere il re, sebbene fosse cosa lodevole, non fosse un requisito bastante a richiedere una simile carica. La replica di Lully fu fulminea: “Eh, perbacco! Lo fareste anche voi se ne foste capace!” Al Louvois caddero le braccia (sempre per non cadere in una gratuita volgarità), ma al re quella risposta piacque così tanto che nel giro di pochi giorni la cosa fu fatta: Jean-Baptiste Lully entrava a far parte del Sigillo Reale. Questo, diciassette anni dopo, non lo salverà comunque da una morte tanto orrenda quanto stupida, ma lasciamo che per ora si goda il suo momento: questa, signori miei, è un’altra storia[3].