Prima della musealizzazione della musica colta[1], praticare quest’arte implicava esibirsi, improvvisare e comporre, senza grandi distinzioni fra ruoli professionali.
Dal momento poi in cui si è stabilizzata l’idea che eseguire un brano, e ancora di più curarne l’edizione, significhi restituire la volontà (in gergo tecnico “ultima”) dell’autore/autrice, domandarsi come questi suonasse i propri brani è diventato necessario, almeno ai fini accademici. L’avvento dei mezzi di incisione ha però fornito più problemi che soluzioni.
L’effettiva necessità di una ricerca di uno stato dell’opera “definitivo”, che a volte può sfociare in una vera e propria ossessione, è oggetto di dibattito e schieramento nel mondo della musica colta: da un lato il passare del tempo implica un mutamento del gusto e delle priorità artistiche e professionali, che ci rende estranei agli elementi costitutivi della cultura passata; dall’altro però è nostro dovere proteggerne i lasciti e promuoverne una conoscenza priva di pregiudizio e manipolazioni.
Ad esempio, nell’edigere le opere di Alexander Scrjabin ci si è chiesti quanto tener conto delle sue registrazioni, che presentano tagli, semplificazioni e grandi differenze rispetto agli spartiti, e che pongono profondi quesiti proprio riguardo la ricerca della “volontà ultima d’autore”. Che dire poi delle Drei Improvisationen di Isaac Albeniz, improvvisate durante una sessione di registrazione, dunque non immaginate per la pubblicazione, la cui unica fonte risiede proprio in un’incisione?
Per aggiungere significato a questo tipo di problematiche, è importante tener presente che ogni epoca ha visto fiorire un gusto condiviso, filtrato dall’estro individuale, dal quale derivavano stile compositivo e stile esecutivo: parliamo cioè di una chiave comune di decodifica del linguaggio e scrittura musicali, quindi di certe tendenze nell’interpretazione della scrittura, e della conseguente prevalenza di un’estetica che si ritrovava tanto nelle esecuzioni di opere quanto nelle esibizioni di improvvisazione, alla quale rispondeva in buona sostanza sia chi scriveva sia chi eseguiva.
Poiché ogni epoca ha prodotto nuove idiosincrasie, col tempo si è persa cognizione di quelle delle epoche precedenti: in pratica non possiamo avere certezza assoluta di come si interpretasse il linguaggio musicale, almeno non prima dell’avvento delle tecniche di incisione[2].
Nella trasmissione da docente a discente si è tentato di preservare certe caratteristiche esecutive, ma più i brani vanno indietro nel tempo meno possibilità ci sono che la la loro tradizione esecutiva coincida con quella che era la loro prassi esecutiva[3].
Questo perché da sempre i cambiamenti nel gusto non sono relativi solo alla musica neo-composta, ma si riverberano anche sul modo in cui viene interpretata la musica di epoche precedenti, portando col tempo alla costruzione di un’immaginario probabilmente falsato di come si suonasse in passato[4]. È pertanto importante non escluderci da questo processo: anche noi, oggi, abbiamo un gusto che si ripercuote nelle esecuzioni della musica composta precedentemente.
Questo divario tra prassi e tradizione appare evidente dall’ascolto di incisioni storiche. Ad esempio l’aria “Casta Diva” registrata intorno al 1914 da Adelina Patti, erede diretta di Giuditta Pasta (a cui fu dedicata la Norma nel 1831), presenta delle notevoli differenze rispetto alle interpretazioni degli anni ’50 di Maria Callas e ancor di più a quelle odierne. Il modo in cui oggi tendiamo ad interpretare un brano differisce sensibilmente dalle esecuzioni dello stesso effettuate negli anni Trenta, o Dieci, o agli albori dei mezzi di registrazione sonora, indipendentemente che siano stati composti nel Novecento o nel Settecento[5].
Le tecnologie di registrazione nascono successivamente allo sviluppo degli strumenti meccanizzati, i quali potevano produrre musica ma non riprodurla[6]. Con l’avvento dei pianoforti a rullo e delle prime tecniche di registrazione, nasce un’industria che rivoluziona il rapporto delle persone con la musica, nonché un fenomeno che permette finalmente ai posteri di confrontare i documenti fisici – spartiti e trattatistica – con dei documenti sonori.
Una delle registrazioni più antiche, probabilmente la prima a contenuto musicale, riguarda Johannes Brahms, ed è del 1889. La sessione si tenne a Vienna per mano di Theo Wangermann, primo “registratore” professionista e fautore di numerose incisioni celebri in qualità di rappresentante della Edison Company[7]. L’autore, che pare fosse molto emozionato – da non riuscire quasi a suonare – gridò il proprio nome direttamente nell’alto-parlante e, dopo una pausa (di cui si sente il taglio) si mise al pianoforte, eseguendo una sua Rapsodia e alcuni brani di Strauss.
Questo documento contiene l’unica prova acustica della voce di Brahms e a causa del deterioramento è stato oggetto di numerose analisi e restauri[8]
Le registrazioni di questo periodo mancavano di bilanciamento acustico e quindi non erano in grado di riportare i suoni in modo fedele. Inoltre, a causa del materiale, contengono moltissimi rumori di fondo, che arrivano anche a sovrastare il contenuto sonoro – soprattutto quelle effettuate su sistema Edison, a base di cera.
Dopo il 1901, con la diffusione dei piano-rolls[9] la tecnologia venne implementata allo scopo di raggiungere la miglior accuratezza possibile, arrivando, col sistema Welte-Mignon, a riprodurre fedelmente le nuance di tocco e dell’uso del pedale di risonanza.
Uno dei compositori che maggiormente apprezzò questo sistema fu Claude Debussy. I suoi rulli hanno però originato molte controversie: nelle 14 registrazioni esistenti ci si trova a dover distinguere, a confronto con gli spartiti dei relativi brani, tra limiti del mezzo, eventuali errori di esecuzione ed effettive differenze interpretative dovute ad una prassi dell’epoca che si è perduta nella tradizione esecutiva. Celebre è infatti il caso di alcuni Preludes, su cui tuttora si dibatte.
Queste differenze con lo spartito sono riscontrabili anche nei documenti relativi ad autori dello stesso periodo: ne sono un esempio le incisioni su grammofono di Cécile Chaminade, che con Debussy condivideva certi stilemi, retaggio del gusto tardo-romantico[10].
Essendosi col tempo persi alcuni elementi di questo gusto, il modo in cui oggi si interpreta il segno grafico porta ad un risultato estetico piuttosto diverso, soprattutto nella gestione del ritmo – come nei succitati Preludes. Considerazioni affini si possono effettuare nel confronto dei Pezzi Lirici di Edvard Grieg, registrati dall’autore su fonografo nel 1903, con interpretazioni moderne, ma vi sarebbero decine di altri esempi.
Moltissimi autori hanno inciso le proprie opere agli albori del nuovo mezzo[11], quasi sempre generando molte perplessità nei posteri – come d’altronde le registrazioni di interpreti di opere altrui. Il compositore/pianista col numero maggiore di incisioni è probabilmente Sergej Rachmaninov, sia come esecutore di opere proprie che di altri, realizzate fra il 1919 e il 1942 con tre tipi diversi di tecnologia. Le incisioni di Alexander Scrjabin e Dmitri Shostakovich sono invece tra quelle che hanno posto più problematiche per la musicologia, sia per ragioni filologiche sia per ragioni interpretative.
Per Scrjabin ad esempio la musica scritta aveva un’importanza metafisica, superiore dunque alla sua interpretazione, della quale non si curava più di tanto. Tuttavia, a detta di alcuni suoi contemporanei, aveva una difficoltà congenita a suonare il pianoforte (forse di origine patologica) che lo portava a muoversi in modo scorretto al pianoforte, producendo suoni sgradevoli ed eseguendo i brani con risultati totalmente avulsi da ciò che lui stesso indicava negli spartiti. Anche il suo rapporto con le esecuzioni delle proprie opere per mano d’altri, peraltro, era piuttosto complicato.
Mentre le controversie su Scrjabin sono materia di discussione più per i curatori di edizioni critiche, l’impatto delle registrazioni di Shostakovich (effettuate a sviluppo ormai avvenuto del mezzo tecnologico) agisce più nell’ambito degli esecutori, il cui cruccio principale riguarda l’eccessiva velocità – tanto nelle registrazioni quanto nelle indicazioni sugli spartiti.
Questo fenomeno ha una moltitudine di spiegazioni: chi ha avuto contatti diretti con l’autore lo descrive come un uomo generalmente molto nervoso – a causa del brutto rapporto col regime sovietico e dei problemi che questo gli causava nella vita – e che tendeva ad avere un approccio al pianoforte quasi frettoloso[12]. Tendenzialmente le indicazioni metronimiche sui suoi brani e la velocità a cui li esegue corrispondono, ma il problema nasce proprio dal fatto che spesso queste sono velocità estremamente difficili sia da raggiungere sia da mantenere – con risultati poi musicalmente discutibili.
Da un’analisi delle registrazioni storiche, soprattutto quelle precedenti agli anni ’30, si possono notare delle caratteristiche comuni nel modo di eseguire, indicatori di una prassi esecutiva figlia del Romanticismo che, per quanto ne sappiamo, poteva conservarne o contraddirne il lascito. Il primo elemento che si nota riguarda la maggior flessibilità del tempo e della velocità: se da un lato è certo che vi fosse una maggior libertà nella gestione della regolarità “metronomica” nell’arco dell’esecuzione per intero di un brano, dall’altro è pur vero che alcuni di questi sistemi di registrazione funzionavano a manovella, e che la velocità di rotazione di questa poteva inficiare sulla velocità della musica successivamente riprodotta.
In questo tipo di registrazioni spesso la melodia è soggetta ad alterazioni rispetto a come appare negli spartiti e piena di micro-variazioni interne (dinamiche, ritmiche e di fraseggio) nonché poco sincronizzata con l’accompagnamento, secondo un uso anche precedente al Romanticismo.
Si nota spesso che cantanti e strumentisti ad arco utilizzano numerosi portamenti e glissandi ma pochissimo vibrato, e che non di rado questi aggiungano abbellimenti, prassi anche questa di retaggio antico. Ultimo elemento riguarda le variazioni timbriche e dinamiche, le quali appaiono sempre piuttosto nette: il limite in questo caso rientra principalmente nel mezzo tecnologico, incapace per molto tempo di riportarne le nuance.
Come si è detto, il modo di suonare non appartiene solo alla sfera dell’esecuzione ma rientra anche nell’ambito della composizione: oggi come ieri, chi pensa nuova musica lo fa sulla base di un rapporto fra spartito e interpretazione che dipende, coscientemente o no, dal contesto in cui vive e lavora – basta chiedere a qualcuno che compone per averne conferma. A meno di non essere perfettamente a conoscenza della prassi di una certa epoca, l’interpretazione odierna delle opere di musica colta non potrà che tener conto del gusto interpretativo odierno, allontanandosi inevitabilmente da qualunque cosa gli autori pensassero quando componevano in passato.
Ma quindi, ascoltare l’interpretazione di un autore delle proprie opere, ci aiuta davvero a capire come queste “andrebbero” suonate e quindi a costruire una nostra interpretazione fedele alla sua volontà artistica?
Per citare Publilio Siro: non tutte le domande necessitano una risposta.
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In copertina: Claude Debussy al piano nell’estate del 1893 presso la casa di Ernest Chausson. Da sinistra a destra sono ritratti: Yvonne Lerolle, Mme Lerolle, Raymond Bonheur, Henri Lerolle, Ernest Chausson, Claude Debussy, Christine Lerolle, Mme Chausson, Étiennette Chausson (fonte: wikimedia commons)