Verginità
Noi…
Caos di nocciòli trasandati dopo la pioggia
profumo di polpa delle grasse nocciòle,
le mucche partoriscono nell’aria afosa
nelle stalle splendenti come stelle. –
O ribes e frumenti maturi
o succulenza pronta a sgorgare,
o lupa che allatti i piccoli,
occhi di lupa dolci come gigli!
Scolano le resine destinate al miele,
la poppa della capra pesa come zucca –
– scorre il bianco latte come l’eternità
nei templi del seno materno.
E noi…
…nelle ermetiche –
come termos di acciaio –
stanzette color pesca
impigliate fino al collo nei vestiti
facciamo
discorsi
culturali.
Così scriveva negli anni ’30 Zuzanna Ginczanka, a proposito della Verginità, tabù tra i più antichi della specie umana.
Ho scelto questa poesia perché parla delle donne, ma non solo alle donne, perché quel pronome “noi” ci accomuna tutti, lettore e poeta, donne e uomini. Noi che siamo catapultati tra immagini solari di una natura benigna, dove non esiste peccato, dove la mucca partorisce, la lupa e la capra allattano in calde stalle, tra resine di miele e altri simboli che conferiscono alla prima parte della poesia una luce e un calore davvero intensi, che si smorzano su quel “e noi”, fulminante della chiusa, dove il nostro modo di vivere è schiacciato o meglio “impigliate fino al colo nei vestiti“, dove quest’ultimi sono il corrispettivo oggettivo dei tabù e della morale opprimente, soprattutto per le donne, ma non solo. Noi, che ci ergiamo a esseri superiori con i nostri “discorsi culturali“ e poi ci chiudiamo in “ermetiche stanzette color pesca“ fredde e opprimenti come “termos d’acciaio”.
Zuzanna Polina Ginzburg è nata a Kiev nel 1917 da famiglia di origine ebrea; ancora in fasce si trasferì con i suoi, che sfuggivano dalla guerra civile russa, in Polonia. All’età di dieci anni Zuzanna vide sgretolarsi la sua famiglia, i genitori si separarono e la lasciarono con una nonna, che provvide alla sua istruzione. Alunna zelante si distinse subito come poeta fin dall’epoca delle scuole superiori e una sua poesia, pubblicata sul giornalino della scuola, fu molto apprezzata.
La sua poetica originale, dissacrante, erotica, in cui temi scabrosi e da sempre sottaciuti sono trattati con gaudiosa sfrontatezza, fece subito scalpore. Nei suoi versi, gli stili letterari più influenti del tempo, lo skamandrismo, il simbolismo e il futurismo, trovano un’armoniosa fusione.
Negli anni trenta si trasferisce a Cracovia ed entra in contatto con i circoli letterari boheme d’avanguardia che facevano capo alla rivista letteraria Skamander, per la quale pubblicherà diverse poesie.
Nel 1936 pubblica il suo primo e unico libro dal titolo: O Centaurach, (“Sui Centauri”), tradotto anche in italiano.
Zuzanna è una donna bellissima, dagli occhi d’ambra cangianti, dal portamento altero, dal fascino misterioso e gitano.
Cresciuta nelle avversità di affetti traditi, di solitudine, in un periodo storico travagliato, i suoi versi sono asciutti, ridotti a frammenti, come questo Nota a margine del 1936:
A parte me stessa non conosco
altra lontananza.
Allo scoppio della seconda guerra mondiale Zuzanna si trasferisce a Lviv, ma nel 1941, la proprietaria dell’appartamento, dove la Ginczanka abita, la denuncia alla Gestapo; il nome di questa delatrice: Chominowa, rimarrà impresso nella memoria collettiva, grazie alla poesia Non omnis moriar, trovata dopo la guerra da un amico, tra le poche cose rimaste della poetessa, e diventata in seguito la sua lirica più nota. Riuscirà a fuggire in tempo da Lviv e a nascondersi a Cracovia, ma nel 1944 fu tradita da un biglietto con il suo indirizzo, trovato in tasca dai nazisti al suo compagno, il grafico Janusz Wozniakowski, al momento del suo arresto. Beffa della sorte, muore fucilata, insieme alla sua amica d’infanzia Blumka Fradis, pochi giorni prima della liberazione della Polonia da parte dei russi.
Quando dico che Ginczanka è una donna morta più volte, mi riferisco non tanto alla sua tragica fine ma alla sua fortuna artistica, che ha patito anni di silenzio umiliante.
Zuzanna, russa di nascita, era cresciuta in Polonia e aveva parlato e studiato la lingua polacca e come autrice si sentiva figlia di questa terra. Eppure nel dopoguerra la Polonia non volle considerarla tale, la rinnegò, complice una politica influenzata dal realismo socialista, che considerava la Ginczanka un’indesiderata per i temi delle sue poesie, che erano troppo scabrosi e in quanto considerata rappresentante di una società borghese.
Bisognerà aspettare il 1953 perché in Polonia si torni a parlare di Zuzanna. Il poeta e saggista Jan Spiewak pubblicò, a proprie spese e in una tiratura ridotta, un’antologia di poesie, dove operò delle modifiche linguistiche e stilistiche a proprio gusto, deturpando con censure i testi più scabrosi.
Nel 1980 si ricordò di lei la casa editrice Czytelnik recuperando l’antologia del 1953 di Spiewak, proponendola senza operare alcun cambiamento, lasciando la poesia di Zuzanna ancora deturpata e censurata.
Nel 1990 la studiosa Agata Araszkiewicz ha pubblicato uno studio su quest’autrice, in chiave psicoanalitica e di chiara impronta femminista, riaprendo il dibattito su di lei.
Solo per merito di Jaroslaw Mikolajewski, poeta e giornalista, nel 1994 Zuzanna è finalmente riconosciuta come una grande poetessa e annoverata nel Parnaso letterario del Novecento polacco.
In Italia nel 2011 è uscita una raccolta di poesie dal titolo curioso: Un viavai di brumose apparenze, a cura di Alessandro Amenta, per la casa editrice Austeria. Sempre lo stesso autore ha collaborato a un documentario televisivo sul Zuzanna Ginczanka dal titolo: “La Poesia Spezzata”, che ha permesso la conoscenza di questa autrice, monda ormai da pregiudizi e da falsi moralismi.
Ginczanka è in anticipo sul suo tempo, e ci sono voluti più di sessant’anni perché questa poetessa smettesse di morire e fosse riconsegnata alla nostra memoria in tutta la sua grandezza.
Ci lasciamo con questi due versi, scritti nel 1933 dal titolo “Sfericità”, che più che poesia sembra una profetica visione del pensiero umano, rivolto perennemente a un andare, che lo riporta indietro, che lo condanna a un’infelicità perenne, tanto più si allontana dalla semplicità della natura.
Ovunque andrò, sarà sempre: avanti,
ma ogni avanti mi riporterà indietro.