L’uomo inventò le regole per ingabbiar la mente,
Che fece d’ogni vincolo Natura insofferente.Amos Meredith
È mattina, pomeriggio, sera, notte, in un paese del quale sarebbe inutile provare a indovinare il nome. Due personaggi s’incontrano. Non sappiamo chi siano, né quale sia il loro ruolo sociale; sappiamo solo che si vedono e immediatamente, senza cerimonie, attaccano con il seguente dialogo:
«Hurlothrumbo, la Musa come va?»
«Dologodelmo, sai la novità?»
«Che novità?»
«Darno, Urlandenny e Darony vendono terre e ammassano milioni.»
«Per qual proponimento?»
«Di certo un tradimento.»
«Amico mio, ti prego, spiegati meglio in prosa.»
«Saranno spade e sciabole ad esplicar la cosa.
C’è assai di più nel mormorio del vento
Di quanto veda il filosofo attento[1].»
Perplessi? Se sì, vi capisco. Se no, cercate di perplimervi in fretta, che sennò non ha senso che io prosegua con l’articolo.
Fatto? Bravi.
Insomma, non vi sorgono spontanee alcune domande? Tipo, chi sono questi due? Quanto dovevano odiarli i loro genitori per appioppare loro due nomi come Hurlothrumbo e Dologodelmo? Perché parlano con questa metrica sghimbescia, e in rima baciata? E chi diamine sono Darno, Urlandenny e Darony?
Non siete i primi a farvi queste domande: avete una nutrita massa di predecessori, tra i quali ci siamo anch’io e, prima di me, un po’ tutti coloro che bazzicavano il Little Theatre di Haymarket (Londra) nel marzo del 1729. Sissignori, perché Hurlothrumbo e Dologodelmo non sono – per loro fortuna e per fortuna dell’ufficio anagrafe – persone in carne ed ossa: insieme a Darno, Urlandenny e Darony sono tra i personaggi principali dell’opera teatrale più folle mai concepita in tutta l’età barocca.
***
Samuel Johnson è uno di quegli autori che sono stati condannati all’oblio dal proprio nome. Voi ce l’avete presente Samuel Johnson? Il dottor Samuel Johnson? Se sì, bravi. Quanto a me, ho il fondato sospetto che quando lo si studiava a scuola fossi impegnato a giocarmi la merendina del giorno in qualche mano clandestina di rubamazzo in fondo all’aula. Se non lo conoscete neanche per sentito dire, una breve ricerca anche sommaria potrà aiutarvi a inquadrare senza sforzo la figura di quel critico e saggista del ‘700 di cui oggi, in Inghilterra, chiunque pucci biscotti nel tè delle cinque saprebbe raccontarvi vita, morte e miracoli. Epperò, allo stesso tempo, questa ricerchina distoglierebbe inevitabilmente il vostro sguardo da un altro Samuel Johnson, sul quale sarebbe invece del tutto inutile chiedere informazioni all’uomo della strada: Samuel Johnson del Cheshire.
Chi era costui? Ogni tentativo di rispondere a questa domanda in modo soddisfacente mi farebbe sforare di brutto la lunghezza massima consentita per un articolo; per ora vi basti sapere che Johnson era, per dirla in breve, un soggetto estremamente peculiare. Nato, appunto, nel Cheshire (la stessa contea di mezzi matti da cui oltre un secolo dopo Lewis Carroll farà provenire il Gatto di Alice in Wonderland) nel 1691, Johnson era quanto di più lontano dall’ambiente accademico si potesse immaginare.
Il suo mestiere di musicista e maestro di ballo gli faceva dividere equamente il suo tempo tra il violino e il minuetto, e a detta di praticamente tutti quelli che lo conobbero non doveva starci proprio del tutto con la testa. Era bizzoso, superbo, tagliente e, soprattutto, imprevedibile: uno sketch biografico comparso poco dopo la sua morte ci restituisce alcuni tratti del suo carattere, come la sua fobia per le donne vecchie o la sua mania di cantare con la faccia appoggiata contro il muro per nascondere al pubblico eventuali smorfie[2].
Questo bell’umore giunse a Londra da Manchester nei primi anni ’20 del Settecento, e per qualche anno vi si fece conoscere solo come violinista. Perciò, quando il 29 marzo 1729 il sipario del Little Theatre si alzò su quella che dovette essere la sua prima fatica letteraria, solo i pochi che avevano già avuto occasione di conoscere le sue stramberie a qualche festa da ballo potevano forse avere una vaga idea di quello a cui stavano andando incontro. Gli altri no, e ne furono travolti.
Personaggi ambigui, inclassificabili, tanto improponibili quanto i loro nomi si contendevano il palcoscenico cantando, ballando, suonando, saltellando sui trampoli; talvolta uscivano da dietro le quinte il tempo necessario per recitare una battuta o cantare una canzone, e poi subito vi rientravano per non sortirne mai più. Vestiti da re, damigelle, guerrieri, eremiti, ufficiali, si abbandonavano a dialoghi lunghi e roboanti, pieni di immagini bellissime e ardite metafore, tanto ardite che solo alla fine del discorso lo spettatore si accorgeva che per un quarto d’ora lo spettacolo era rimasto completamente fermo e la trama era rimasta al punto di partenza. Già, la trama. Perché Hurlothrumbo, or The Super-Natural, questa poetica sagra della nullaggine, era anche regolata da una trama, che ora proveremo in qualche modo a riassumere alla meno peggio.
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Il trono di un regno di cui non si sa il nome è occupato dal re Soarethereal[3], un brav’uomo che però trascorre le sue giornate in una sorta di apatia, rapito in un’estasi misticheggiante fatta di sogni e pensieri profetici. A occupare il trono dei suoi pensieri è invece la bella Cademore, figlia del re di Spagna, che corrisponde il suo amore e sta per essergli condotta tra le braccia dal di lei fratello Theorbeo[4].
Il mieloso quadretto è però funestato da un’infausta notizia: tre grandi del regno, Darony, Urlandenny e Darno, stanno ammassando ricchezze e forze armate per ribellarsi al re e impadronirsi della corona. A un segnale convenuto scoppia la rivolta, spalleggiata dal generale olandese Lomperhomock e dalle sue truppe, e il re è costretto a fuggire dalla corte. Sul campo di battaglia si fa avanti il valoroso Hurlothrumbo[5], valente guerriero al servizio di Soarethereal che però tradisce il re e lo fa imprigionare.
In una prigione straordinariamente aperta al pubblico (i personaggi più disparati vi entrano ed escono come se niente fosse) il re si stilla in lagne finché il buon principe Theorbeo non viene a salvarlo con uno stratagemma: i due si scambiano i vestiti, e il principe accetta di restare in prigione finché il re non riuscirà a sconfiggere gli usurpatori e a liberarlo.
Seguono varie peripezie che coinvolgono i suddetti personaggi, un gruppo di eremiti, un genio tutelare, la Morte, un campanaro e il cane che morse il gatto che si mangiò il topo che al mercato mio padre comprò. Alla fine, dopo la finta morte di Theorbeo (apparentemente bruciato vivo in una “stanza degli specchi ustori”, ma in realtà riuscito a uscirne sa lui come) ci si avvia verso il lieto fine. Urlandenny e Darony, che nel frattempo aveva cinto la corona e aveva sposato a forza l’infelice Cademore, vengono catturati e perdonati dal clemente Soarethereal. Hurlothrumbo viene condannato a indossare per sempre una buffa tunica nera e gialla per purgarsi della sua vuota ambizione; Soarethereal può infine riunirsi all’amico Theorbeo e sposare l’amata Cademore, e vissero tutti felici e contenti.
Protagonista di una sottotrama è invece il nobile Lord Flame che, impazzito per amore della bella Seringo, puntualmente entra in scena sproloquiando, ci resta fino a quando lo spettatore non viene portato a esplodere in un accorato «What the f-»ed esce. Eppure la parte di Lord Flame è importante, forse più importante di tutte le altre messe insieme, perché fu scritta da Samuel Johnson nientemeno che per se stesso. Durante tutte le repliche dello spettacolo fu proprio lui, in casacca nera e con una fluente parrucca boccolosa, a vestire i panni del volatile nobiluomo, accompagnando la recitazione con qualche strimpellata di violino e facendo il verso alla mania dell’opera lirica italiana – che ai tempi, in Inghilterra, faceva furore – con un’aria in falsetto tutta gorgheggi, in un barbaro grammelot:
Lusinga del mio para
Sini non e pensier,
O cara Sposa bramono.
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Bon, questa è in breve la trama, e tutto sommato bisogna riconoscere che, a parte qualche dettaglio, sembra stare in piedi con le sue gambe. Quel che è davvero assurdo, e basta fermarsi anche solo al primo dei cinque atti dell’opera per accorgersene, è il modo in cui viene portata avanti dai personaggi. Facciamo un esempio. Per tutto il primo atto il re Soarethereal non fa altro che lamentarsi con l’amico Theorbeo della lontananza dell’amata Cademore. Finalmente, nell’ultima scena, Cademore giunge accompagnata dalla damigella Seringo. Questo è il dialogo che segue:
CADEMORE Oh, è qui! Oh, l’anima mia s’accende, le corde del mio cuore tremano!
SOARETHEREAL Oh, mia Cademore, ora finalmente vivo! Come il Sole riporta in vita questo basso mondo e fa gioire della sua presenza tutta la Natura, così tu conforti e resusciti il mio cuore, e tutti i miei sensi vengono rapiti dall’estasi! Mille sublimi pensieri zampillano dalla mia anima! C’è forse qualcosa nel mio regno che possa farti piacere?
CADEMORE Tutto qui mi dà piacere. Seringo, fai sentire al re una descrizione in musica della danza di Arsinoe[6].
Seringo canta un’arietta, e il sipario cala. Questi due ci hanno messo un atto intero a ritrovarsi e appena si vedono, invece di pomicia scambiarsi amorose effusioni, la prima cosa che fanno è chiedere alla damigella del seguito di descrivere col canto la danza di un’Arsinoe che non si sa chi sia e non verrà mai più chiamata in causa in tutto il resto dell’opera[7].
Tutto l’Hurlothrumbo è pieno di cose del genere.
Questo, per esempio, è il drammaticissimo momento in cui Darony costringe Cademore a sposarlo, alla presenza di Hurlothrumbo come testimone:
DARONY [al prete] Signor mio, fate il vostro dovere.
PRETE [a Cademore] Mia signora, volete voi sposarvi?
CADEMORE No.
HURLOTHRUMBO E chi se ne frega.
PRETE È il mio re, e devo obbedirgli[8].
Subito dopo entra Lord Flame con in mano due pistole e una sciabola, e come al solito manda tutto in vacca.
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Questi i dialoghi, ma anche i monologhi non sono da meno, come dimostra alla perfezione l’indimenticabile maledizione invocata da Dologodelmo, il consigliere del re, sul capo di Hurlothrumbo quando quest’ultimo tradisce Soarethereal per unirsi agli avversari:
Che il Cielo faccia piombare su di lui l’amara benedizione, la maledizione dolce come il miele: la pillola indorata che soddisfa ogni desiderio e che infetta la mente; che gli dia ricchezze e gliele faccia amare, sì che si renda infine odioso agli uomini, agli spiriti, agli angeli e agli dèi. Che sul suo volto appaia il marchio dell’orgoglio, così che possa mutarsi in una taverna in cui i diavoli vengano a far bagordi e a gozzovigliare. Che gli faccia coccolare la propria natura, mangiare squisitezze fino a perdere il senso del gusto, e accechi poi in lui tutte le bellezze della mente così che, alla fine, il suo piacere insaziabile finisca per divorare tutto l’eterno tesoro racchiuso nella sua anima[9].
Indimenticabile è anche la prima scena del quarto atto, in cui un campanaro – che non ha il minimo ruolo nella storia e ne uscirà subito dopo – sale sul palco e apostrofa il pubblico con questa canzone:
Buondì, buondì, signori miei, buondì!
Mentr’io, povero omuncolo, sto intento al mio mestiere,
Voi conoscete il sommo del piacere:
Non v’è al mondo incantesimo più dolce e più profondo
Che in braccio a qualche bella l’addormentarsi a fondo.
Ma s’io vi sveglio con la mia campana,
Date un caldo buondì alla vostra dama,
E se in darle piacere voi non sarete avaro
Lei dirà grazie a voi e al campanaro[10].
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Hurlothrumbo, or the Super-Natural, manco a dirlo, ebbe un successo strepitoso. Le repliche si succedettero alle repliche, per molte sere di fila il teatro di Haymarket registrò il tutto esaurito e il nome di Samuel Johnson del Cheshire rimbalzò di bocca in bocca per tutta Londra: non c’era chi non fosse curioso di vedere l’opera più nonsense del secolo. Chi masticò amaro, invece, furono i censori incaricati di rintracciare e stroncare ogni contenuto seppur vagamente satirico presente negli spettacoli teatrali: come fare a trovare un senso nascosto in un’opera che di senso non ne aveva neanche uno apparente?
Anche la musica composta dallo stesso Johnson per accompagnare il suo opus magnum ebbe qualche momento di notorietà: alcune arie conobbero l’onore della stampa e sono giunte fino a noi. Sono brani che possono anche risultare orecchiabili, ma quando si prova a leggerli le loro note danno continuamente l’impressione di essere in qualche modo fuori posto; diverse regole di tecnica e di gusto vi vengono regolarmente disattese, e in questo si può dire che il carattere della musica si adatti in modo sorprendente a quello del testo[11]
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C’è un simpatico aneddoto, tramandatoci dal romanziere Henry Fielding nel suo celebre Tom Jones. In esso si racconta che un giorno Johnson ebbe a discutere con un certo vescovo che non aveva apprezzato la sua opera, e gli rispose che, se non gli era piaciuta, era semplicemente perché non l’aveva letta con un violino in mano: lui, Johnson, non se n’era mai separato per tutto il tempo che aveva speso a scriverla[12]. Aveva ragione. Mettersi oggi a leggere l’Hurlothrumbo fa un effetto decisamente strano: non lo si può prendere in mano senza provare una strana sensazione di incompletezza, non derivante solo dalla sua forma sconclusionata.
Dell’Hurlothrumbo noi oggi non abbiamo che lo scheletro, cioè il testo a stampa; il resto del corpo era costituito da tutto ciò che ora non possiamo più avere. I suoi muscoli erano le melodie che accompagnavano i deliranti testi delle sue canzoni, i balletti che ne inframmezzavano le scene. I suoi nervi erano i suoi costumi assurdi, di cui non è rimasta traccia né testimonianza, e i balzani accessori di scena: i trampoli di Lord Flame, il cavallo pallido sul quale entra in scena la Morte trionfante nell’atto IV…
Più di tutto, però, oggi si fa sentire la mancanza del cuore dell’opera: il suo autore, quell’ormai dimenticato Samuel Johnson del Cheshire che saltando, cantando e strimpellando il suo violino riuscì a stregare la platea dell’Haymarket Theatre con uno spettacolo pieno di vuotezza dalla prima all’ultima battuta. Poteva a buon diritto mostrarsi orgoglioso della sua opera, che ancora oggi regala qualche ora di sognante stordimento a chi abbia la costanza di mettersi a sfogliarla.
Ancora oggi, a chi apre il testo a stampa dell’Hurlothrumbo sembra di trovare Johnson ad accoglierlo, sorridente e con un violino in mano, proprio lì, sul frontespizio; il suo ritratto non c’è, ma c’è un motto in versi scritto di suo pugno che ne fa le veci in maniera eccellente:
Ye Sons of Nonsense, read my HURLOTHRUMBO,
Turn it betwixt your Finger and your Thumbo,
And being quite out-done, be quite struck dumbo.Voi figli dell’Assurdo, leggete il mio Hurlothrumbo:
Sfogliatelo con l’indice e col pollice
E, vedendovi sconfitti, restate a bocca aperta[13].
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Tutte le opere teatrali superstiti di Samuel Johnson del Cheshire – insieme alle sue musiche di scena – sono state raccolte da Valerie C. Rudolph in un bellissimo e ormai introvabile volume, The Plays of Samuel Johnson of Cheshire – Garland Publishing, New York & London, 1980. Non conosco nessun’altra edizione moderna dell’Hurlothrumbo, ma una scansione del libretto a stampa del 1729 è facilmente reperibile su Google Books.