Pastiche
Sposti il suo sorriso dalla strada
Che io voglio passare con la mia tristezza.
Quando le auto si fermano al segnale rosso
Io attraverserò la via.E per un istante
Il mondo intero vedrà il mio viso.Il mio cuore non ha segreti;
Ma si apre solo dall’interno.
Qualche anno fa un professore universitario, poeta per rabbia, mi consigliò di togliere l’Io dalla poesia. Togliere l’Io vuol dire lasciar respirare le parole e renderle libere di mutare forma e semantica.
Narlan Matos colpisce proprio per la sua capacità di utilizzare l’Io nelle sue liriche, senza per questo legarlo a sé.
L’Io Poetico di Matos è sdegnoso, triste ma non depresso, perché la tristezza poetica invita alla riflessione e al dialogo con se stessi. Lo dice bene, il poeta, nel distico conclusivo della poesia Romanzi dei nostri antenati:
(…)
Un giorno inciampai in me
e caddi in questo abisso senza fine.
Giovane poeta brasiliano, nato nel 1975 a Italquara Bahia, a 27 anni è già molto conosciuto fuori del Brasile per le sue due raccolte Signore e signori (1997) e Nell’accampamento delle ombre (2001), da cui è tratta la poesia Pastiche” e Romanzi dei nostri antenati.
Queste pubblicazioni gli valsero notevoli riconoscimenti e premi, tanto che l’ambasciatrice degli Stati Uniti lo invitò a rappresentare il Brasile nel premio Internazionale Writing Program dell’Università dello Iowa nel 2002. Da allora si è trasferito nel Nuovo Messico dove ha conseguito un master presso l’Università di quello Stato. Il poeta viene a contatto con le varie culture che convivono in America, da quella indiana dei Navajo, a quella caraibica delle vicine isole e infine a quella beat legata alla musica jazz di Charlie Parker e John Coltrane. Diventa amico di poeti leggendari quali Robert Creeley e Lawrence Ferlinghetti, del nobel Derek Walcott e altre personalità che hanno fatto grande la letteratura americana.
In questo humus nasce la raccolta poetica Elegia al Nuovo Mondo, nel quale le influenze culturali, di cui il poeta si è arricchito, vengono fuse e confuse nei versi, che risultano scarni e impietosi, come solo gli occhi dei bambini sanno esserlo.
La poesia, che posterò in chiusura, può essere letta in tanti modi, perché contiene molteplici significati. È una poesia composta da tante poesie legate da anafore, che come anelli di congiunzione, tengono alta la tensione che risulta incalzante e vagamente angosciante.
I bambini della notte li vediamo ogni giorno sfilare sulle nostre televisioni, tra mucchi di spazzatura, macerie.
Sono i bambini di ogni paese del mondo, che nascono in mezzo al silenzio urlato della disperazione, della miseria voluta e coltivata da un sistema sociale fondato sul profitto. Sono pure i nostri figli opulenti occidentali, inscatolati e chiusi, ai quali abbiamo tolto la luce della curiosità, divorata da quella pulsata dei piccoli schermi.
Sono i poeti anime inquiete, che cavalcano l’ignoto e l’assurdo e provano a possederlo per mezzo della parola. Sono bambini che pongono interrogativi, che non trovano risposte.
La poesia per Narlan Matos si dimostra impotente: può solo vedere, raccontare, interrogarsi come fa da sempre, del resto. L’originalità non è nel tema ma nella profondità della parola, nella scelta di termini che per catacresi[1] si allargano a ventaglio, nella combinazione sapiente di figure retoriche, nella composizione dei versi lunghi e brevi, che conferiscono alla lirica un tono alto e ansiogeno che coinvolge il lettore gettandolo in un bombardamento di emozioni.
Ora però lasciamoci rapire dai versi:
I bambini della notte
Sento i bambini della notte
baciare fiori appassiti come colibrì morti
un demonio nei loro occhi si posa perché c’è solo il buio
e non si trova nient’altro
perché non c’ estate nei loro occhi né duemila soli esplodono nelle loro mani.Vedo i bambini della notte
allattati da seni denutriti, rotti, da seni fragili di sabbia
allattati da un latte bianco fatto non di nubi né di latte
che gusto avrà il latte della vita nella bocca dei bambini
della notte?
che occhi possono avere bambini nati
da seni senza estate da uteri senza madri?Vedo i bambini della notte
cullati in qualche altalena che non vedo in un girotondo
che non intenerisce
che non arriva al più profondo di me
che albe cercano nel cielo?
che raggi del firmamento discenderanno sui loro volti?
sento gli sciacalli africani nel mattino di un mese freddo
il giorno non è che una perla candida
in un giardino devastato.Vedo i bambini della notte
trafficare diamanti e costellazioni e denti d’avorio
non ci sono serafini nei loro sembianti di sciabola
non c’è una chitarra gitana nelle loro bocche
e nelle loro vene non scorrono i ruscelli
non difendono fino alla morte la città di Andorra
dove recintarono la libertà.Vedo i bambini della notte
scavare con le unghie nella melma la primavera e la chimera
rovistare tra rovine di carta e cenere in cerca della parola
che spieghi il blu cubista del cielo
cosa c’è di sbagliato nei loro occhi?
cosa c’è di pece nei loro sorrisi?
nelle favelas di Rio de Janeiro nelle favelas della Giamaica
negli angoli del Cairo, di Managua e Katmandu
nei campi di banane dell’Ecuador e del Guatemala
nelle piantagioni di gomma del Brasile
nei suoli affilati del Medio Oriente
nelle periferie di Saigon San Salvador e Hanoi
qualcosa mi fa male qualcosa mi corrode:
sento il grido disperato dei bambini della notte.
“Sento “, “vedo” sono verbi ripetuti ossessivamente, sono le orecchie e gli occhi del poeta vede e sente e soffre e racconta per immagini partendo da un Io che non è mai singolare.
Torneremo sicuramente a parlare di Narlan Matos, ma ora congediamoci da questo poeta con l’explicit della poesia che dà il titolo alla raccolta di poesie Elegia del Nuovo Mondo:
(…)
tu mi chiedi dove sono stato amico mio
e solo ora posso rompere il mio silenzio:
sono stato con me.