Quando si inizia a lavorare ad uno spettacolo, la prima domanda da porsi è “perché?”. Perché si è scelto un dato testo? Cosa si vuol raccontare attraverso quella storia? Una giustificazione unicamente estetica non è sufficiente: se si vuole riproporre un’opera che ha avuto mille rappresentazioni prima della nostra, non ci si può accontentare della bellezza o del fascino di quel testo, ma è necessario trovare una ragione. Ciò è ancor più valido se si opera una trasposizione mediale: se l’opera di partenza nasce in un’altra forma, come romanzo, novella o poesia, la sola ammirazione per una bella storia non consente di ripresentarla; se si intende portare una nuova messa in scena, invece di accontentarsi di leggere l’originale, occorre avere un motivo per farlo e qualcosa da dire riguardo quel racconto. Talvolta, quel qualcosa si rivela un senso nascosto nell’originale che solo la trasposizione può far emergere.
Questa linea di condotta, che Studio Novecento ha sempre osservato, trova più che mai conferma nel debutto del loro più recente spettacolo, una messa in scena de La Lupa di Giovanni Verga presentata nel centenario della morte dell’autore. La novella di partenza è tanto breve quanto conosciuta, uno degli esempi più familiari dello stile verista e delle tematiche care all’autore siciliano, ma essa diviene unicamente il punto di partenza per lo spettacolo, che non si accontenta di rappresentarne gli episodi. La Lupa di Studio Novecento si presenta con la struttura di una moderna tragedia greca, e del racconto originale fa giusto lo scheletro da cui partire per raccontare la propria storia.
Se gli episodi della narrazione rimangono gli stessi, completamente diverso è il senso di cui essi sono rivestiti dal loro autore. Nel presentarci questa storia di feroce passione e violenza ineluttabile, Verga ci mostra un affresco quasi documentaristico di un mondo paesano, in cui una donna che vive una propria sensualità consapevole e libera suscita scandalo e ribrezzo. È una faccenda umana, fatta di sentimenti e morale, e il centro sta in una voluttà pure solo evocata e nell’intreccio di caratteri tra i personaggi. Ma la riscrittura cui la sottopone Marco Pernich espone alla luce qualcosa che era rimasto fino ad allora nell’ombra. La vicenda viene radicalmente reinterpretata, e mette in scena la dialettica tremenda e tenace tra la nostra modernità, oramai completamente dissacrata ed incredula, ed il mondo passato che conservava la consapevolezza della presenza del Sacro al suo interno.
Lo spettacolo si presenta immediatamente spoglio: i pochi oggetti sul palco servono più come indicatori dei luoghi deputati ai vari personaggi che non come autentici elementi di scena; quelli che vengono usati sono invece trasfigurati, e diventano le manifestazioni di un Oltre continuamente evocato dal testo. Sono infatti le parole – e il ritmo e la sonorità delle parole – a portare avanti il racconto, assieme alle immagini che si manifestano sulla scena vuota e portano momenti di vividezza in un’atmosfera altrimenti rarefatta e schiacciata dalla presenza inquietante dell’Invisibile. Le parole vivono in sé stesse e sorreggono l’intera vicenda, tenendo avvinti gli spettatori tanto con il senso quanto con la loro poesia – si avvertono in questo precisi echi di Pasolini e Pavese, quanto mai puntuali nel rimandare al mondo contadino ancora avvinto di grecità descritto da Verga.
È in questo primato della parola che si vede il primo elemento di contiguità con la tragedia greca, ma gli altri si rivelano ben presto: è tragica la struttura drammaturgica, con un alternanza fluida e continua di dialoghi recitati dai personaggi e commenti del coro; è tragica la messa in scena, tutt’attorno ad uno spazio vuoto che è tanto la piazza del villaggio quanto la vecchia agora; sono tragici i personaggi, nessuno dei quali ha un nome proprio che lo identifichi, perché essi sono archetipi più che persone. Su tutti incombe un Fato ineluttabile, quello del racconto, e non a caso i soli personaggi che possono essere liberi sono l’Amico e la Sorella del Soldato, le due creazioni originali non presenti nella novella: essi soltanto possono sfuggire alla necessità della ripetizione eterna che attende gli altri e trascina ognuno incessantemente verso il proprio destino, da cui non si riesce nemmeno a voler sfuggire.
La scelta di questo modello non vuole essere unicamente stilistica, ma mette la forma al servizio del senso: il racconto, eterno e rinnovato, di quelle persistenze ancestrali della cultura mediterranea, sopravvissute al paganesimo, alla cristianità e alla modernità dissacrata. È costante la dialettica e la contrapposizione tra il mondo della comunità, permeato e plasmato da una tradizione immemorabile, con il mondo di fuori e le sue leggi fugaci e mutevoli: lo ribadisce la scelta, appena accennata ma nondimeno sottile, di posticipare l’ambientazione della vicenda, portandola dal tempo di Verga al dopoguerra, a rimarcare come nessun frangente e nessuna svolta della grande Storia possano davvero cambiare l’ordine profondo delle cose, come nessun membro della comunità possa distaccarvisi e come nessun estraneo possa davvero entrarvi.
La presenza incombente di un orizzonte metafisico, nondimeno tanto presente da risultare opprimente, è resa tangibile dalle differenti reazioni che i personaggi gli riservano: per i nativi del paese, come il Soldato sedotto dalla Lupa, è un dato di fatto tanto innegabile quanto inarrestabile, cui non si può sfuggire; per chi viene da fuori, come il Maresciallo, non si può né capire né credere ad una simile visione – e non sorprende la posizione curiosamente sfumata del Parroco, che è tanto un simbolo del potere degli uomini quanto un rappresentante del Sacro, ma un Sacro diverso e in qualche misura più “umano” di quello imperscrutabile della tradizione. Ancora più radicale è il conflitto nel mondo femminile, tra il Coro delle Donne Nere – portatrici della Verità e custodi del sapere ancestrale – la Lupa – che si ribella con la propria sensualità vorace ad un Ordine che non riconosce e di cui forse nega addirittura l’esistenza – e la Figlia della Lupa – del pari negatrice dell’Ordine e del Senso, ma votata alla rassegnazione ed al nichilismo.
Eppure quello stesso orizzonte non è monolitico, ma lacerato al suo interno e in conflitto dialettico: la sacralità è rappresentata in maniera duplice, con l’aspetto solare dei riti cristiani e quello notturno delle tradizioni pagane, due mondi in lotta tra loro e a loro volta in lotta con una modernità che cerca di sovrascriverli dimenticandone il potere, pretendendo di spiegare anche ciò che non può essere spiegato senza saperlo comprendere davvero. In questo scontro titanico agli uomini non restano che l’accettazione cieca o la ribellione senza speranza, e alla fine anche questa scelta si rivelerà superflua: come commentano con quieto distacco le Donne Nere, alla fine tutto si farà racconto e ripetizione.
Ma si racconta per capire e per conoscere, e per questo scopo si porta sulle scene una vecchia novella ambientata in un mondo ormai trapassato. Solo raccontando si scopre quanto quell’universo sia ancora ferocemente attuale pur nel suo apparente occultamento; solo ripetendo la vicenda si portano alla luce quelle verità che erano rimaste tra le righe della novella, quasi che Verga – uomo di razionalità e fiducia nel progresso – non potesse o non volesse vederle. Ma l’Invisibile agisce anche al di fuori della nostra comprensione, e solo conoscendolo si possono evitare le sue conseguenze più drammatiche.
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La Lupa è uno spettacolo di Associazione Studio Novecento, con il contributo del Municipio 9 del Comune di Milano (qui puoi trovare il loro sito internet).
Testo liberamente tratto dalla novella di Giovanni Verga.
Drammaturgia e messa in scena di Marco M. Pernich.
In scena Andrea Bonzi, Bianca Cerro, Bianca Del Basso, Allegra D’Imporzano, Lorenzo Fonti, Andrea Pella, Giacomo Piseri, Valentina Sangalli, Angelica Topolino e Ailin Tracchia.
Fotografie di Lorenzo Gorini.