Era luglio del 2001 quando a Genova si manifestava per difendere le peculiarità di ogni angolo del pianeta, mentre le grandi potenze mondiali si riunivano per deciderne le sorti, senza preoccuparsi di ascoltare la voce di migliaia di persone accorse in Italia da tutto il mondo per opporsi a quella che oggi tutti conosciamo come globalizzazione. Non sapevo e ovviamente non potevo capire che, mentre guardavo i Pokemon, a Genova si faceva la storia. Molti anni dopo mi sono ritrovata a guardare un film, Diaz: don’t clean up this blood (2012) del regista Daniele Vicari ed è così che ho scoperto un importante pezzo della storia italiana contemporanea. Ho letto innumerevoli recensioni, visto molti altri film sul tema e ascoltato diverse testimonianze, ma quel film rimane, a mio modesto parere, una delle migliori narrazioni per conoscere e riflettere su quello che è successo.
Daniele Vicari è noto per il suo impegno civile in ogni opera cinematografica e quindi non poteva certamente farsi sfuggire un’occasione del genere. Con lo scopo di offrire al pubblico un momento per ricordare e riflettere “a freddo” su quanto accaduto, il regista si serve degli atti dei processi, riuscendo così a raccontare almeno una verità giudiziaria (una pratica che diventa sempre più utilizzata nel cinema impegnato contemporaneo) e delle immagini delle riprese fatte da chiunque si trovasse sul posto, per ricostruire il filone degli eventi. Non dimentichiamoci che il G8 del 2001 ha segnato un radicale cambiamento, perché si prende finalmente coscienza del potere delle riprese video, al punto che esso viene considerato il primo evento interamente registrato da cellulari e videocamere.
Cercando prima di delineare com’era la situazione di tensione, egli si concentra su due momenti in particolare: la notte del 21 luglio 2001, con l’irruzione delle forze dell’ordine nella scuola Diaz e i momenti passati al carcere di Bolzano dagli arrestati di quella notte. L’immagine di una bottiglia lanciata da un ragazzo funge da raccordo tra i continui flashback e flashforward. Vicari ci porta all’attenzione i poteri in atto in quei giorni, scoprendone un nuovo, quello delle immagini. Attraverso la storia, da cui rimane sempre distaccato, ci racconta le degenerazioni di ogni atto di potere.
Servendosi di questi documenti video, il regista li lega a immagini fittizie con un montaggio intermediale che parla da solo. I dialoghi, infatti, sono pochi e di essi soltanto alcune battute sono veramente significative. Il potere narrativo delle immagini è portato all’estremo, perché con il nuovo millennio l’immagine si fa da sola testimone dei fatti, ma spetta poi al regista riuscire a darle voce in modo che non venga dimenticata nella grande quantità di immagini. Vicari può così permettersi di mostrarci i punti di vista di tutti i gruppi coinvolti: manifestanti pacifici, black bloc (per capire di cosa si tratta, si rimanda al seguente link), forze dell’ordine, giornalisti e politici, e sottolinearci come cambia il potere in base a chi lo esercita.
Potere è la parola più descrittiva di questo film. Di che cosa si tratta? Il filosofo Michel Foucault direbbe che il potere si esercita, non si possiede e dipende dalla relazione di dominante-dominato, la quale cambia in base al punto di vista. Vicari, non prendendo le difese di una o dell’altra parte, ci offre un coprotagonismo che ci mette di fronte a questo concetto di potere.
Il primo e più interessante è quello delle immagini, ovvero della relazione tra: oggetto, soggetto e macchina. In Diaz questo potere si manifesta in due modi: il primo attraverso le immagini documento che giocano il loro potere nelle parole di quel ragazzo che da una finestra della scuola filma l’irruzione della polizia e grida: «vi stiamo filmando! Il mondo vi guarda». La videocamera in quel momento detiene il potere, perché impedisce che qualcuno possa dire “non è vero”. Il secondo è quello delle immagini fittizie che hanno il potere di legarsi alle altre e porre lo spettatore in una condizione particolare, ovvero di osservatore critico, obbligato a formarsi un suo pensiero.
È il coprotagonismo della pellicola a mettere in chiaro come un fatto cambi in base a chi lo guarda perché dipende dalle ideologie e dalle opinioni, ma ci fa anche capire come cambia la relazione di potere dal medesimo punto di vista. Abbiamo il black bloc Etienne che vede in quelle manifestazioni contro la globalizzazione un modo per rovesciare istituzioni che ritiene violente, ma poi, al termine di quelle giornate, resosi conto di quello che era successo, sente un enorme senso colpa.
Alma invece è una manifestante pacifica ed è la vittima per eccellenza. Con la sua innocenza accorre dal nord Europa per affermare le sue idee in giornate che dovevano essere un grande momento di unione e anche di festa, ma rimane sempre più colpita dal fatto che la realtà è ben diversa dal mondo ideale che si è immaginata e ne rimane travolta, poiché finisce tra gli arrestati della Diaz.
C’è poi il grande e immenso potere dell’informazione che viene svelato nella sua doppia faccia: il giornalista che dovrebbe rimanere super partes e che aveva il ruolo di dominante fino a quel momento, la sera dell’irruzione alla Diaz diventa il dominato e rimane vittima di violenze. Il giornalista che invece parla al telefono con il capo della polizia e di cui non viene mai mostrato il volto perché non si trova sul luogo, rappresenta quella che oggi chiamiamo fake news, perché non si procaccia le informazioni da solo e non rimane super partes, ma divulga ciò che gli viene detto. Oltre a questo chiaro atto di costruzione di una notizia che dimostra anche il dominio politico su di essa, vi sono le dichiarazioni pubbliche dei capi della polizia alla stampa, che vengono mostrate sempre lacunose e superficiali nonostante le continue domande dei giornalisti.
Se cambiamo ancora punto di vista, troviamo un altro potere, a sua volta suddiviso in altri tre: innanzitutto abbiamo i capi della polizia più preoccupati di placare in fretta la manifestazione e di trovare capri espiatori per giustificare le loro azioni, piuttosto che organizzare operazioni efficaci. In seconda battuta troviamo i comandanti delle diverse squadre di polizia, tra cui uno splendido Claudio Santamaria, in una situazione scomoda, sono in bilico tra l’esecuzione degli ordini e la consapevolezza che quelle azioni, eseguite in quel modo, avrebbero portato a conseguenze disastrose. Infine ci sono gli agenti semplici, giovani e inesperti, i quali, dopo giorni di provocazioni dai gruppi black bloc, ben riconoscibili tra i manifestanti grazie al loro abbigliamento, non vedono l’ora di menare le mani.
In cima a tutto, infine, c’è il potere politico che condiziona le scelte delle forze dell’ordine ignorando i suggerimenti di comandanti esperti e preferendo invece di “mettere tutto a tacere alla svelta”. L’apice è dimostrato dalla scena con un meraviglioso Francesco Acquaroli, nei panni di uno dei comandanti, che suggerisce di buttare dei lacrimogeni e di non irrompere nella Diaz, ma viene del tutto ignorato. Sulla sua esperienza vince l’esigenza politica di porre fine alla manifestazione e di dare un segnale forte all’opinione pubblica.
A questo punto è chiaro che il meccanismo di potere si sclerotizza e degenera inevitabilmente nel momento dell’irruzione nella scuola. Da qui non ci sono più flashback e flashforword, ma si procede in modo lineare. Vicari ci mostra l’incursione nella scuola, le conferenze stampa e infine, necessariamente senza immagini documento, i momenti nel carcere. Tramite gli atti dei processi, il regista ci racconta orribili violenze, a cui si fatica a credere, ma che diventano più comprensibili se si analizzano attraverso quelle materie che indagano l’animo umano.
Diventa innanzitutto chiaro che il potere necessita di corpi su cui esercitarlo ed ha bisogno di un pubblico a cui mostrarlo. Nel carcere gli agenti sono sia dominanti che spettatori e agiscono senza la “sorveglianza della mamma”, cioè senza i comandanti e senza i giornalisti che rendono conto delle loro azioni. Se alla Diaz si vede un’esplosione di tensione, a Bolzaneto si parla di spettacolarizzazione della punizione. I comandanti in queste scene perseverano nella loro scelta di non agire e addirittura di non vedere quello che succede, così da rimanere sempre in bilico tra non atto e atto di omertà.
Chi guarda il film sente il bisogno, a ragione, di condannare tutto quello che vede. Io mi domando: perché avviene? Il filosofo Roberto Esposito afferma che questo genere di violenze sono figlie della nostra epoca e dipendono dalla dicotomia di due aspetti dell’individuo: l’uomo, ovvero l’animalità di cui è fatto ciascuno di noi e la persona, ovvero il ruolo che riveste, i diritti e doveri che gli spettano. Nel momento in cui si verifica questa dicotomia, si hanno le violazioni dei diritti umani. Come dimostrano anche certi studi psicologici e sociologici, in questi momenti prevale l’uomo, il quale si identifica con il “branco”.
Guardando questo film è chiaro che ci sono stati errori da tutte le parti e una disorganizzazione continua che ha condotto all’ultimo di tutti questi poteri, il caos. Esso ha guidato gli esiti di quelle giornate, influendo anche sulla dicotomia uomo-persona e ha portato a quella “banalità del male” di cui parla Hannah Arendt. Non solo, ha dominato il più importante tra tutti i poteri che è quello dell’informazione, dimostrando quanto sia facile da controllare e quanto da esso dipenda l’immagine che noi abbiamo del mondo e del potere politico. Lo dimostra anche il fatto che, nonostante fossero passati dieci anni, nessuno in Italia ha appoggiato la realizzazione di questo film.
Con l’ultima scena della pellicola è evidente che ancora adesso deve essere chiarito molto su quelle giornate e i responsabili devono ancora essere puniti. Benché l’Italia sia stata condannata nel 2017 per violazione dei diritti umani dalla corte suprema di Strasburgo, ancora nessuno è stato punito perché in Italia non esiste il reato di tortura.
Il film di Vicari è dunque un’opera straordinaria, che lascia molto amaro in bocca e tante domande, sia riguardo quei giorni, che sulle dinamiche sociali e umane. Si poteva evitare tutto quello che è successo? Siamo davvero così pieni di morale come crediamo? Come riconoscere dove finisce la libertà di affermare ciò in cui crediamo e inizia la violazione dell’altro?
Sono domande a cui non trovo risposta, ma tra le manifestazioni dei Black lives matter, i vari Fridays for future, Non una di meno e Gay Pride, penso che avremmo tutti molto da imparare da quelle giornate genovesi e provare quanto meno ad essere più collaborativi tra le varie parti, per evitare l’accrescere di tensioni che, ci piaccia o no, sono umane.