Una serie canadese prodotta da History Channel su quei tipi con gli elmi cornuti e le navi a forma di drago?
Per chiunque non ne abbia mai sentito parlare, le premesse di Vikings sembrano delineare un elenco via via più randomico, un farsesco Cluedo della produzione televisiva dagli improbabili risvolti[1]
Amici miei, sarete felici di sbagliarvi.
Vikings è la storia di Ragnar Lothbrok (Travis Fimmel), eroe norreno avvolto nel mito eppure inestricabilmente avvinto nelle maglie della Storia. Ed è, di pari passo, un’immersione nel mondo dei vichinghi[3], dei razziatori più celebri di tutti e dei più aborriti dall’Europa alto-medievale oltre che dagli americani, umiliati nella scoperta dell’eponimo continente come nel primo sbarco sulla Luna.
«Now that I see them up close,
they seem so much less frightening than I supposed».Indeed, they appear almost human[4].
Un universo la cui narrazione, mai immemore della filigrana rossa con la regale “H” che ne domina gli angoli, intercetta nuclei significativi degli eventi e della cultura di quei tempi. Usanze, riti, usi e costumi diventano punti di snodo e scansione della vicenda di Ragnar, dei suoi alleati e dei suoi avversari: contesi tutti quanti tra “storia” e “Storia”, divisi tra le reali testimonianze del loro passaggio e il ruolo affidato loro nella serie. È un lavoro sapiente, quello del creatore e sceneggiatore Michael Hirst, filologico quanto basta per figurare come produzione History[5] e accattivante abbastanza da vantare sei stagioni (l’ultima delle quali in produzione).
Vikings è una storia di razzie, chiaramente: costellata di strepitose battaglie che poco hanno da invidiare allo standard filmico di blockbuster medievaleggianti come Il Signore degli Anelli. Ma è anche e soprattutto una storia di viaggio, di peregrinazioni fisiche e mentali. Un’apertura di orizzonti ricercata nell’incontro-scontro tra la cultura che dà il nome alla serie e altri mondi, altre lingue, altre divinità. Lo scandaglio di una tradizione norrena in cui il mito è ancora forte, all’alba delle sue interazioni con tutto il resto.
Con un dio diverso, soprattutto: unico, sottomesso, sofferente.
Cristiano.
Il culto monoteista destinato a conquistare tutto l’Occidente, ad assumere più di ogni altro una connotazione di universalità, contro una religione fatta su misura per gli uomini del Nord, ancora articolata sui loro numeri e sui costumi originari di un popolo fiero e indomito.
È uno scontro su ogni fronte, è il collasso degli inconciliabili. Il Paradiso, esito di una vita pia e rispettosa ritardato il più possibile dalle incombenze della stessa, ha come contraltare un Valhalla bramato e ricercato in battaglia, tra urla e sangue: apice di un’esistenza gloriosa agognato non meno della fama e delle ricchezze. Un mondo dove dei Santi non restano che timide reliquie si scopre contrapposto alla presunta discendenza di eroi mitici o addirittura di divinità, deviazioni terrene di un pantheon sterminato teso a rendere conto di ogni aspetto dell’esistenza umana.
O perlomeno di quella vichinga.
«I wish it was so simple.
In the gentle fall of rain from Heaven I hear my God.
But in the thunder I still hear Thor.
That is my agony».«I hope that some day our Gods can become friends»[6].
Proprio a questa eletta schiera sostiene di appartenere Ragnar: discendente diretto di Odino, padre di tutti gli Dei e sovrano indiscusso del pantheon norreno. Una figura divina composita, complessa, sfaccettata. Capo e guerriero, certo, ma anche viaggiatore senza meta, scopritore di mondi alla continua ricerca di nuova conoscenza, di nuove prospettive. Un vagabondo rivestito degli umili abiti che, nell’immaginario di J. R. R. Tolkien e della cultura popolare, sono passati a definire le sembianze di Gandalf il Grigio come quelle dello stregone per eccellenza: il cappellaccio a tesa larga, la tonaca sdrucita e il bastone su cui appoggiarsi per sostenere in egual misura il peso del viaggio e del sapere[7].
E non dissimile risulta essere Ragnar, colui che della divinità dovrebbe condividere il sangue. Agricoltore, cacciatore, combattente, leader dallo strepitoso carisma e dalle sconfinate ambizioni; vichingo per antonomasia eppure nota scomoda nel concerto di un universo norreno granitico e ostile al cambiamento. Un uomo teso all’ignoto, alla ricerca di nuove sponde; egualmente razziatore ed esploratore, cultore degli universi altrui e loro flagello. Un Ulisse brutale ma lungimirante incapace di arrestare lo sguardo su un orizzonte familiare, sempre pronto a scoprirne di nuovi. E, soprattutto, a domarli: con l’ascia oppure con la sua vivace, tricksterica astuzia.
Il ruolo di autentico, grande trickster dello show spetta però a Floki (Gustaf Skarsgård), incarnazione delle tendenze di un altro essere divino: Loki, dio ingannatore e trasformista, polimorfo e ambiguo non meno di Odino. È un genio impareggiabile, Floki, un carpentiere dall’abilità eclettica e visionaria in grado di costruire qualunque cosa.
Il costo di tale dono, però, è la ragnatela di tic e disturbi che avvolge la sua mente, l’insieme di turbe che fa del luminare un consapevole fool, una cupa parodia del mondo che lo circonda. La sua è una devozione radicale e inflessibile a divinità percepite come entità umbratili ed enigmatiche: una fede viscerale propensa a volgersi inaspettatamente in violenza, facendo dell’artefice un distruttore. Floki si muove tra gli estremi di genialità e follia, slitta con impressionante agilità dal ruolo di amabile e auto-ironico burlone a quello di fanatico Joker norreno, dando vita a uno dei personaggi più iconici della serie.
«The lure of an imaginary land.
Travelling somewhere that doesn’t exist…»Of course I’m coming![8]
La serie esplora l’Europa del IX secolo d.c., faticosamente emersa dall’antichità per tuffarsi in un Alto Medioevo violento. Suo palcoscenico prediletto sono Norvegia e Svezia: coste frastagliata di impressionanti fiordi, fitte di verde e rosse di sangue, costellate qua e là dai piccoli insediamenti lignei da cui partono le famose navi drakkar. E i temuti velieri dalla testa di drago, carichi di armi e di uomini, le correnti e i remi li spingono fino a una Britannia frammentata in piccoli regni, a una Francia imperiale oberata dalla pesante eredità di Carlo Magno. Alla storia dei vichinghi se ne affiancano di parallele: a seconda dei casi più o meno riuscite (come del resto accade per le varie storylines norrene), ma sempre e comunque funzionali all’affresco di un’epoca viva, variegata, non banale, percepita secondo un caleidoscopio di sguardi diversi.
La serie che avrebbe potuto avere come focus una semplice banda di razziatori occupati in infinite battaglie si rivela attenta ai particolari, alle sfaccettature, alle graduali rivoluzioni di mentalità e all’incontro tra culture differenti. Talvolta mera collisione, impatto tra due schieramenti inconciliabili (o, sull’orma dello show, due opposti muri di scudi); in altri casi occasione di riflessione sulle differenze e soprattutto sulle somiglianze tra le parti in gioco.
What are you so afraid of?
It’s only death!
Una realtà cupa, divisa tra gretta brutalità e machiavelliche manovre di potere[9], che non esita a infrangere i suoi confini inoltrandosi nel terreno della visione, dell’allucinazione, nel viaggio onirico: indotti di volta in volta dalla fede estatica in un Dio cristiano ancora intento a fabbricare martiri oppure dalla viscerale devozione a divinità guerriere sazie di sangue che attendono i valorosi dietro il portale del Valhalla.
Un prodotto unico e peculiare; raramente perfetto, ma sempre di livello. Un viaggio in un mondo filmico quasi universalmente dominato da una concezione fittizia e semplicistica, sottoposto alle razzie di barbari stereotipati e appena abbozzati, sezionato in Vikings con gli strumenti della consapevolezza seriale e di un’attenta riverenza contestuale. Un’immersione partecipe in un’epoca che è lungi dall’essere soltanto asce, sangue e adrenalina.
Elementi che la serie dispensa comunque in laute dosi, non preoccupatevi.
Ah, e per inciso: degli elmi cornuti non c’è neanche l’ombra.