Commemorazione su Facebook
Il gioco è questo:
sei con tutti e con nessuno.
Frughi con le mani nel buio.
Trovi una forma liscia,
pensi di aver trovato un amico,
invece è un coltello affilato col manico morbido,
puoi conficcarlo
nello spazio virtuale fino all’impugnatura
rivelare il segreto che sei morto,
che hai chiamato gli amici al funerale.
Il gioco è questo:
non sei con nessuno e sei con tutti.
É difficile scegliere tra le meravigliose poesie di questa poetessa georgiana: Nené Giorgadze, scoperta come sempre sulla rivista Poesia di Crocetti Editore, grazie all’articolo e alla traduzione di un bel numero di poesie, di questa autrice poco conosciuta in Italia, da parte di Paolo Galvagni, apparso nel numero 355 del marzo 2018.
Ho scelto come poesia d’apertura Commemorazione su Facebook, perché parla di un argomento attualissimo: il nostro rapporto con i Social e lo fa utilizzando immagini senza colore, solo forme, ombre, dove la morte è virtuale, dove la vita non ha valore.
Una comunità in vetrina dove “non sei con nessuno e sei con tutti”, un gioco, nel quale è possibile che tu sia morto e lo annunci sul tuo profilo, invitando gli amici al tuo funerale, e non sembrerà strano, e non farà gridare all’orrore, ma sembrerà tutto normale, perché tutto è reale nella sua virtualità e la poesia moderna con questo che deve fare i conti.
Nené Giorgadze, classe 1971, nata e cresciuta a Tbilisi, nella Georgia Sovietica, dopo aver compiuto studi letterari nell’università della capitale, nel 1999 si è trasferita negli Stati Uniti e dal 2011 vive a San Pietroburgo.
È poetessa, narratrice di lingua georgiana e ha pubblicato le sue poesie sulle riviste georgiane. Suoi versi sono stati tradotti in inglese, russo, lettone e lituano.
Colpisce l’immediatezza del linguaggio poetico, che possiamo apprezzare dalla traduzione del Galvagni. La sua apparente semplicità lascia quasi attoniti, a volte divertiti, non irrita la suscettibilità del lettore, ma ha un retrogusto acidulo, che fa pensare e lì la parola perde la sua misera natura di segno nel tempo e nello spazio, diventando altro.
Il codice della strada
Le parole stanno ammucchiate in piccole macchine
e viaggino ora più veloci, ora più lente.
Le strade sono ora larghe, ora strette,
ora a senso unico, ora a doppio senso.
Le parole fanno girare piccole ruotine,
agli incroci sorridono o si arrabbiano tra loro.
Se qualcuna viola il codice della strada,
viene spedita in una cella buia.
In solitudine la parola comincia a bere
e può diventare alcolizzata.
Quelle che rispettano le regole
non sono sole.
Si fermano sempre al rosso.
La Giorgadze fa un gran lavoro di scavo nella parola, gioca con il concetto primordiale del Logos, per raccontare la repressione, in cui si trova chi devia le regole per amore della Verità e dell’Umanità.
Per la sua continua ricerca della verità, della profondità del dramma esistenziale, la poesia si fa controcorrente e oppositiva, per questo è condannata a una fine indecorosa, affogata nell’oblio della dimenticanza, uccisa e martoriata per quel Logos che da millenni è la sua condanna e la sua salvezza.
In questa lirica rivedo in forma contratta ed essenziale tutta la storia della letteratura mondiale, i volti dei più grandi si rispecchiano in quella parola condannata alla solitudine, all’alcolismo, all’abbrutimento e alla morte. Mentre le parole vuote, i miti cui corriamo dietro come fantocci di gomma, sono tante, sono troppe, non soffrono la solitudine, perché nell’omologazione si compiacciono e ci schiacciano.
Invidia
Tolgo la buccia dalla dolce pesca profumata – rosea, soave.
La pellicina vellutata si stacca dolcemente
dal frutto succoso tagliato.
E inaspettatamente
dalla pesca
esce un vermetto bianco.
Sorrido.
È bellissimo vivere dentro qualcosa di fragrante,
circondati dal rosa.
Qual è il compito della poesia, se non quello di dare alle sensazioni incorporee riferimenti oggettivi, come i colori e i profumi, che le rendono visibili e tangibili? L’invidia è un sentimento orribile, nessuno ammette di provarlo, quando per vergogna, quando per ostinazione; eppure fa parte dell’essere umano e bisogna con onestà accettarlo, per apprezzare la fragranza della nostra esistenza.
La poesia non nega l’evidenza, ha però dalla sua la capacità di trovare parole, che sanno insegnare ed educare alla verità, se la si legge con amore e sincerità.
La ferita
Prendi la chiave,
apri la porta ed entra nella ferita.
Puoi sdraiarti sul divano a riposare,
o passare in cucina se hai fame.
Se vuoi, esco a passeggiare per non disturbarti,
se vuoi preparo il pranzo, accendo la musica, sposto le tendine.
Non dimenticare: è una ferita profonda, si rimargina lentamente.
Se la leccherai, abbaierà come un cane o miagolerà come una gatta.
Possiamo anche giocare al dottore
a una condizione: non immedesimarti troppo nel personaggio,
non farmi sentire che è una ferita vera e propria,
ricorda che ogni ferita è una porta aperta o chiusa.
E la chiave è nelle tue mani.
L’incipit è di forte impatto emotivo, è rivolto al lettore, è un imperativo di vita. Bisogna aprire le proprie ferite, guardarsi dentro, senza troppi pietismi, senza farsi sconti. Si è medici di se stessi, quando si scopre il possesso della chiave, simbolo fortissimo che si contrappone alla ferita, che evoca il dolore, paura della verità.
Si vive troppo implosi nel proprio ombelico e della ferita e della sua cura, ossia della chiave di lettura, non ne vogliamo sapere. Questo accade al singolo essere umano, per poi riflettersi nella storia dell’Umanità, che mai come oggi dovrebbe affrontare le proprie ferite e guarirle, prima della fine inesorabile del Pianeta Terra e dei suoi abitanti.
Torneremo a parlare di questa poetessa, perché a breve dovrebbe uscire un libro di liriche in Italia, a cura di Paolo Galvagni, per il momento vi lascio con questa poesia superba, che spero ci faccia tutti riflettere, sui suoi molteplici significati, che chiamano in causa il nostro smisurato Ego umano e lo schiacciano nel tritacarne dell’esistenza.
La Spazzatura
Sono stata qui ieri.
E ieri l’altro.
Proprio così il furgone ha scaricato l’ennesimo mucchio di spazzatura.
C’era proprio lo stesso odore – di putrefazione amarognola.
Comunque sono tornata qui,
comunque le tracce mi hanno riportata qui.
Che senso aveva – quante volte me lo sono chiesto –
cercare in mezzo alla spazzatura?
In una periferia isolata della città
cercare nel mucchio della spazzatura?
Ma non si può cambiare la visuale,
guardare tutto ciò dall’alto,
da dove la spazzatura sembrerà artisticamente variopinta,
non inquieterà l’odore
né il senso di disperazione accumulata,
perché non solo la spazzatura,
ma anche le persone dall’alto sembrano puntini.
In copertina: Steffen Kraft, I’m so lonely, 2019