Italo Calvino e le lezioni Americane

Il frutto amaro delle lezioni americane

Il pesante è la radice del leggero
Lao Tsu

Italo Calvino è uno scrittore sorprendente. Sorprendente forse più oggi di quand’era in vita. Autore minimo, nello stile, nella produzione, nei temi: autore apparentemente da scuole medie, da antologia. Eppure un autore, forse l’autore, che ha esercitato un influsso profondissimo sulla letteratura e sulla cultura italiana.

Anche Gadda, riconosciuto ormai come una delle punte più alte della nostra letteratura, è rimasto solo, e nessuno si sognerebbe mai di emularlo, o anche solo di rubargli qualcosa. Calvino invece è divenuto in poco tempo, in parte già da vivo, un modello di scrittura limpida e precisa, come la linea di un tecnigrafo; non si possono individuare dei veri e propri epigoni, però non sembra del tutto fuori luogo affermare che nella letteratura contemporanea, nella sua apparente semplicità, nelle sue forme minimali e piane, vi sia la mano dello «scoiattolo della penna».

Eppure, non è solo l’opera letteraria di Calvino ad aver impresso un nuovo corso al linguaggio degli autori di oggi: è forse soprattutto un libro ad essersi imposto come canonico e fondante: le Lezioni americane. O meglio, i Six memos for the next millennium, come avrebbe voluto intitolarli. Non ne ebbe il tempo, dato che fu colto da un ictus poco prima di ultimarli. Non doveva essere nemmeno un saggio, in realtà: come si sa, sono semplicemente gli appunti di un ciclo di lezioni che avrebbe dovuto tenere ad Harvard, e avevano come scopo una ricognizione attorno a sei temi stilistici, sei qualità che uno scrittore dovrebbe avere: leggerezza, rapidità, esattezza, visibilità, molteplicità, coerenza. L’ultimo punto è quello che non ebbe il tempo di affrontare, e così ci rimangono solo cinque promemoria, che però non hanno smesso di far discutere.

Infatti le Lezioni americane hanno il pregio di darci un condensato, una pillola del pensiero critico di Calvino, che si manifesta sia nell’insieme, nella parte conscia e progettuale dell’opera, sia in tutte le periferie, in tutte le parti minori, forse involontarie – e dunque più profonde. Vi sono belle intuizioni e grandi problemi, e una radicale presa di posizione nei confronti della letteratura e della vita, che letta oggi ci fa capire sia l’importanza dell’opera di Calvino, sia i suoi limiti intrinseci, connaturati a quella presa di posizione.

Innanzitutto vi sono le sei tematiche, che contengono invevitabilmente i loro contrari: la pesantezza, la lentezza, e così via. Già in questo si mostra una spiccata tendenza a ragionare per antinomie, per coppie di opposti; opposti di cui però non spera una risoluzione, un riappacificamento equilibrato: Calvino sceglie. Anche se proprio nell’incipit si premura di dire che non ritiene «le ragioni del peso meno valide» rispetto alla leggerezza, non può fare a meno di porre in positivo la questione, di parteggiare per uno dei due poli. Altrimenti tutta la sua argomentazione si ridurrebbe ad un nulla di fatto, un rincorrere dei non-problemi.

Italo Calvino e le Lezioni Americane

L’intento di Calvino è invece, come prima di lui Machiavelli, creare un gioco conoscitivo tra due termini, due «campi di forza», per dirla con Barenghi, non sono perfettamente allineati gli uni agli altri, ma che si compenetrano generando frizioni: molteplicità ma anche coerenza; leggerezza sì, ma con esattezza, con precisione; sono invece la rapidità e la visibilità a dar corpo all’idea di scrittura di Calvino, a fare in modo che il sistema non collassi nelle reciproche opposizioni.

Le Lezioni americane da un lato sono il racconto di queste caratteristiche della scrittura, e dall’altro sono una summa di considerazioni sparse sull’arte e la letteratura, su Dante come poeta del “pesante”; sulla leggerezza di Cavalcanti (o meglio, del Cavalcanti raccontato da Boccaccio); delle Metamorfosi di Ovidio come una sorta di Bhaghavad Gita occidentale, come storia infinita del divenire cosmico. Non tutte le argomentazioni sono corrette, e anzi molte si rivelano fallaci ad un’analisi più attenta: eppure mostrano il tentativo di riassumere in poche pagine tutta una concezione letteraria, un modo di scrivere e probabilmente anche un modo di vivere. Calvino, parlando della letteratura, parla di sé, del suo stile.

Le sue opere, infatti somigliano molto a quanto scrive nelle Lezioni americane: ogni sua opera è condotta a ritmi serrati, con notevoli ellissi e salti temporali, e con uno stile che favorisce la velocità di lettura, l’immersione completa; i suoi testi sono molteplici e proteiformi: non solo si passa dal romanzo resistenziale alla fiaba, al racconto fantastico umoristico, alla prosa lirica, ma anche nella stessa opera Calvino riesce a inserire più stili e racconti (il manifesto è certo Se una notte d’inverno un viaggiatore; ma Il barone rampante o Palomar non sono da meno).

Se, come scrive proprio nelle Lezioni, l’intento è di essere un albero, essere un uccello, un fiore, allora non si può non essere molteplici, bisogna provare a riassumere in se stessi la complessità del mondo e riversarla sulla pagina. E tutto questo dev’essere condotto con esattezza. Esattezza per Calvino è proprio la linea pulita, la limpidezza, oltre che la precisione nella scrittura: se da un lato c’è il tentativo di aderire alla realtà, di riuscire a strappare da essa il non detto, l’implicito, l’inespresso o l’ineffabile, dall’altro c’è il tentativo di superare questa pura adesione al reale, e ricondurla a un principio intellettuale di perfezione:

Italo Calvino gioca con sua figlia

(…) un altro grande personaggio intellettuale del nostro secolo, Monsieur Teste, di Paul Valéry, non ha dubbi sul fatto che lo spirito umano possa realizzarsi nella forma più esatta e rigorosa. E se Leopardi, poeta del dolore di vivere, dà prova della massima precisione nel designare le sensazioni indefinite che causano il piacere, Valéry, poeta del rigore impassibile della mente, dà prova della massima esattezza mettendo il suo Teste di fronte al dolore, facendogli combattere la sofferenza fisica attraverso un esercizio di astrazione geometrica.

(Italo Calvino, Lezioni Americane, Garzanti, p.50)

Calvino concepisce l’atto della riproduzione come una riduzione, una stilizzazione essenziale della realtà. L’ideale estetico di Calvino è la formula matematica, il disegno che svapora in forme geometriche assolute. È una sete di assoluto pari a quella di Kandinsky, anche se concepisce ancora la parola nella sua materialità, nel suo poter esprimere le cose. Vi è una continua tensione tra questi due momenti, ed è anche per questo che Calvino si è occupato tanto di fiaba: perché la fiaba sintetizza e sublima, ma nello stesso tempo è vivida, ricca di immaigini icastiche e simboliche. Come Paul Klee, anche Calvino è convinto che l’arte si mostri nell’istante appena precedente al movimento, quando due forze si rispecchiano, ma nessuna ancora prevale. È quell’equilibrio impossibile, quella luce tersa e minimalista che cerca Calvino. E questo è il suo fascino e insieme il suo limite.

Cercando infatti di esprimere la realtà, Calvino finisce con il sublimarla, fuggirla, rinchiuderla in pura forma. È così innamorato della leggerezza che, alla fine, non trovandola nella realtà, finisce col rinchiuderla solo nella sua penna; anzi, la sua penna stessa si tinge di oscurità, di una patina in un certo senso malinconica.

Calvino ama così tanto la linea precisa, l’essenzialità, da trovarsi a concordare con Leopardi, con il suo arrovellarsi sul male insondabile dell’esistenza. Anche Calvino ha un problema con la vita. Ha un problema con la contraddizione della vita, con il suo essere così poco pulita e limpida; non può che sottoscrivere dunque l’«insostenibile pesantezza dell’essere», come scrive facendo il verso a Kundera. La leggerezza, il tocco magico della sua penna, è lì, nella penna, e non nella vita. Il volo angelico della piuma non è nelle cose, ma nell’arte: è il risultato di una paziente raffineria mentale, di un continuo setacciare fino a trovare la pagliuzza d’oro che risplende.

E così, alla fine, le Lezioni americane ci restituiscono una scissione, una ferita aperta, un continuo e incompreso rincorrersi tra la vita e la scrittura. Un paradossale poter rappresentare la vita solo abbandonandola. E questo, forse, è l’ultimo frutto, amaro e inaspettato, della poetica di Calvino.

 


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