La casa de papel

“La Casa de Papel”: ¡Viva la Resistencia!

All’inizio di settembre, Ilaria Rossini ci ha parlato di Bella ciao: la canzone partigiana per eccellenza, riconsegnata ai giovani uditorii del mondo intero dall’uso fattone nella serie TV spagnola La Casa de Papel.

Possiamo davvero terminare questo mese dal clima titubante senza parlare della serie in sé?

Claro que no[1].

E, ora, come da testo musicale, mani in alto.
Questa è una rapina.

Il lavoro meglio retribuito della storia.
Duemilaquattrocento milioni di euro… o forse più.
Dipendeva da quanto saremmo riusciti a resistere.

La Casa de Papel (La casa di carta, in fedele traduzione italiana, o Money Heist, Furto di denaro, in una meno fedele – ma più generosamente ovvia – traduzione internazionale) è una serie del 2017 creata da Álex Pina e trasmessa sulla rete Antenna 3. L’airing iberico ha previsto 15 episodi dalla durata considerevole, fino a un’ora e un quarto l’uno. La piccola serie dai lunghi tempi filmici, in patria, è stata tuttavia accolta tiepidamente.

Il successo globale è giunto dopo. È giunto col passaggio sul colosso Netflix, e con la conseguente separazione dei 15 massicci capitoli in 22 tasselli più fruibili, non eccedenti i canonici 40-45 minuti di lunghezza.

La casa de papel

La casa di carta è la storia della rapina più grande di tutti i tempi: quella in cui nessuno viene rapinato. Gli otto sequestratori che, all’alba di un uggioso weekend, fanno irruzione nella Zecca di Stato madrilena (o, nell’insistente lessico della serie, la “Fábrica nacional de moneda y timbre”) e ne prendono in ostaggio il personale, non vogliono portar via denaro a nessuno.

Vogliono stamparne di nuovo (di Zecca).

Vogliono occupare la struttura il più a lungo possibile, resistendo all’assedio della polizia sotto gli occhi del mondo, e stampare denaro legittimo, pulito, irrintracciabile.

Milioni.

Per scongiurare le minacce del mondo esterno al loro microcosmo di cartamoneta, porte blindate e ostaggi, gli otto fanno riferimento a un outside man, al loro personale “angelo custode”: la mente dell’intero piano, “Il Professore” (Álvaro Morte). Un individuo dalle mille risorse che, oltre a guidare la squadra dei rapinatori, una mossa alla volta, verso la ricchezza, dovrà vedersela con l’ispettrice Raquel Murillo (Itziar Ituño): altra scacchista di livello incaricata, muovendo i pezzi bianchi della polizia, di mettere la parola “fine” alla rapina.

È così che si snoda la vicenda, lungo i 15 (o 22) episodi del suo svolgimento. Alla storia dei singoli sequestratori, identificati da nomi di città, si affiancano le angosce degli ostaggi, tenuti in linea con le armi e tramutati in pedine nella partita dell’onnisciente Professore. Sul fronte opposto, l’ispettrice Murillo tenta di conciliare il peso dell’incarico che le grava sulle spalle e la prepotenza di un universo lavorativo maschile cogli sparsi frammenti della sua vita familiare. Nemmeno la polizia se la passa bene, dopotutto: fiaccata da divisioni interne e costretta su un piedistallo dall’insensibile occhio dei media, pronto ad accusarne il minimo sbaglio.

La Casa de Papel è, se non altro, un coro: ora ridente, ora disperato, sempre e comunque umano. È un’umanità che, a prescindere dal fronte, si trova sottomessa a un Sistema. Ed è più o meno propensa, a seconda dei casi, alla Resistenza. Contro gli schiaffi della vita, contro la povertà, contro partner violenti, contro la vecchiaia e contro la morte.

Contro il mondo.

La casa de papelOgni singolo personaggio, a modo suo, tenta di resistere. E la serie ne accompagna gli sforzi.

Ti sei mai accorto che in tutti i film horror
c’è sempre un tipo spavaldo come te
che ti fa pensare: questo morirà di sicuro.
E non ti delude. Muore sempre.
Arturo credimi… morirai di sicuro!

Nel ricco sistema di volti e voci che si aggirano per la serie, non è sostanzialmente possibile individuare un vero e proprio protagonista. E, se la laconica e onnipresente narrazione è affidata alla voce di Tokyo (l’icona femminile Úrsula Corberó), sono spesso altri a ricevere le maggiori attenzioni.

Personaggi che, presentati come ricoperti da altrettante maschere stereotipiche (fisicamente e metaforicamente parlando), danno presto prova della loro sovversiva unicità: Il Professore, genio eclettico mosso dal sentimento e dall’etica più che da una fredda, utilitaristica logica; l’ispettrice Murillo, poliziotta dagli attributi squadrati che, quando toglie il distintivo, si rivela una “Raquel” sola e vulnerabile; i rapinatori Nairobi e Helsinki (l’attrice gitana Alba Flores e il serbo Darko Peric), una “bella” e un “braccio” che offrono prove di umanità superiori a quelle di molte tra le loro “vittime”. E ancora Denver (Jaime Lorente), capace di infrangere le sue sembianze di testa calda illetterata grazie a una sensibilità ingenua fuori dal comune.

Vero titano del palcoscenico è però un altro: Berlino (Pedro Alonso), secondo in comando del Professore e leader dei sequestratori nella Zecca. Carismatico, brillante, imprevedibile, spietato, diviso tra i poli di gentiluomo e maniaco sessuale. Al contempo freddamente metodico e brutalmente irruente – proprio come la città di cui ha scelto il nome. Berlino, forte anche dell’ottima performance e della perfetta espressività del suo interprete, è certamente uno dei personaggi più riusciti della serie; nonché la star indiscussa di molti dei suoi momenti più emblematici.

La casa di carta è stata subito consegnata alla cultura pop, come accade per molti fortunati esemplari, nelle forme dei suoi oggetti più iconici: le maschere stilizzate di Salvador Dalì e le tute da lavoro rosso acceso. I due elementi del travestimento che, nel corso della vicenda, dilatano il fronte dei sequestratori: moltiplicando esponenzialmente, agli occhi della polizia, il numero delle minacce e delle potenziali vittime.

La casa di carta

Ma si tratta anche delle uniche pennellate di colore in un quadro dalle tonalità spente, in una Zecca asettica annegata in fredde luci al neon. È su simile background neutro – esteso anche agli scorci del mondo esterno, diviso tra l’assembramento degli edifici della periferia madrilena e le grandi distese di nulla stagliate al di là – che si consuma la rapina, si scatena l’azione, si profilano le vicende dei personaggi.

Noi siamo la resistenza, no?

Eccola qua, La casa di carta. Sorprendente, avvincente, talvolta eccessiva: anche per gli standard d’oltreoceano che, nella trama da heist movie come nelle scene d’azione un po’ sopra le righe, le risultano modello imprescindibile. Sempre e comunque grande.

Vera e propria revanche televisiva europea che, attinti gli stilemi della grande serialità americana e fattili propri, va disgregandoli dall’interno: sovvertendoli, ribaltandoli, giocandoci. Talvolta, semplicemente, conducendoli al loro esito più prevedibile; nella perenne consapevolezza della loro specifica distanza dai prodotti d’oltremare.

La Casa de Papel è lassù, sulla vetta della rara serialità di spessore del Vecchio Mondo.

È lassù con la nostra Gomorra, è lassù con la britannica Happy Valley.

Non possiamo che augurarci anche la terza stagione resti (e resista) sulla vetta.

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