Quando Zelig era solo un film

zelig fotogramma

Quante volte la parola zelig trova collocazione nel nostro lessico attuale. Viene usata in politica, in medicina, nello spettacolo. Pochi però riconducono il termine al mondo del cinema dello scorso secolo, più precisamente alla filmografia del grande Woody Allen. Lui, nato in una famiglia ebrea, spesso tratta suddetta tematica nelle sue produzioni, ironizzando la sua cultura d’origine pur rispettandola e contemporaneamente dichiarandosi non credente. Ci colpisce la scelta di questa parola, strana ai nostri occhi: zelig. In Yiddish, il dialetto parlato dagli ebrei negli Stati Uniti, la parola zelig, o meglio selig, significa “benedetto”, “felice”. A questo punto, una parola così particolare non può che essere scritta con la maiuscola, diventando nome proprio e termine a se stante.

“Zelig” è una piccola gemma del cinema purtroppo rimasta in ombra sin dalla sua apparizione nelle sale nel 1983. Rimane un mistero il fatto che questo film abbia avuto una così grande influenza sulla nostra cultura senza essere mai ricordato per questo. Woody Allen si immerge in questa audace sperimentazione, abbandona per un attimo i canoni del suo personaggio tremendamente realista e cinico pullulante di discorsi cerebrali per concedersi un progetto del tutto inedito e originale. Parliamo di un mockumentary, ovvero un film parodico e satirico camuffato sotto le vesti di documentario, in questo caso contenitore di una profonda riflessione sulla società e sulla cultura di massa.

La vicenda, collocata a cavallo tra gli anni Venti e Trenta, racconta di Leonard Zelig, un omino di corporatura minuta che presto scopre di essere affetto da una grave malattia, almeno è così che il suo comportamento e la sua capacità viene etichettata. Il problema in questione è quello di acquisire le somiglianze delle persone che ha accanto in un determinato momento. Una vera a propria trasformazione che porta ad omologarsi al gruppo sociale di cui si fa parte, di grandi o piccole dimensioni che sia. Quella di Allen è un’idea geniale, creare questa situazione estrema per spiegare la principale connotazione assunta dalla moderna società di massa, quando l’identità personale lascia spazio all’omologazione a causa delle grandi rivoluzioni di inizio Novecento, come l’industrializzazione, i trasporti, i nuovi mezzi di comunicazione.

Mia Farrow
Mia Farrow in Zelig

Nulla manca al progetto “Zelig”: il regista sceglie di filmare l’intero film con un’attrezzatura del cinema degli anni Venti. Le immagini sono in questo modo di bassa qualità e nitidezza, la pellicola è in bianco e nero e i personaggi, ovviamente vestiti secondo la moda di quell’epoca, interagiscono per brevi dialoghi, la maggior parte del film è corredata di voce narrante che ci accompagna passo per passo nello sviluppo della storia. Zelig, dopo ripetute trasformazioni (sia estetiche che attitudinali) in persone di etnie e religioni differenti dalla sua, viene definito come affetto dalla Sindrome del Camaleonte (oggi definita in medicina come Sindrome di Zelig, malattia rara legata alla sfera comportamentale in grado di insorgere dopo gravi traumi), proprio per la straordinaria capacità di accogliere su di sé sembianze altrui.

A questo punto è la dottoressa Fletcher (Mia Farrow) a prendersi cura di Leonard è del suo strano disturbo. La società lo vuole come fenomeno d’attrazione mentre lei è solo interessata a comprendere la fonte del suo comportamento, la sua eccessiva tendenza a perdere l’identità e la personalità per farsi accettare dagli altri: comportamento a cui tutti siamo inclini ancora oggi ma che in Leonard Zelig raggiunge livelli estremi. La terapia della dottoressa Fletcher ha buoni risultati: il disturbo di Leonard sembra sparire dopo un periodo di isolamento e di conversazioni intrattenute con lei. Presto i due si innamorano ma le continue pressioni dall’esterno fanno riaffiorare il problema, tanto da portare Leonard a fuggire, rifugiandosi in Europa, dove il nazismo impera. La dottoressa riesce dopo tempo a ritrovarlo, immerso e confuso nell’atmosfera nazista. Riuscendo a tornare in patria per loro arriva il lieto fine: Leonard torna se stesso grazie all’amore per la donna che era riuscita a salvarlo.

Woody Allen
Woody Allen

A rendere del tutto realistico il falso documentario vengono chiamati anche personaggi illustri, ripresi durante interviste fittizie circa il fenomeno Zelig rivisto negli anni Ottanta, parlando di Leonard come se fosse realmente esistito. Tra gli altri ricordo lo spicoanalista Bruno Bettelheim e la sua considerazione riguardo il fatto che Leonard poteva essere una persona normale e ben inserita nella società, malgrado questo comportamento fosse portato all’eccesso.

Il film raccoglie al suo passaggio alcuni riconoscimenti importanti: Mia Farrow è premiata al Kansan City Film Critics Circle Awards, Woody Allen con un David di Donatello, mentre l’intera produzione riceve il premio Pasinetti al Festival di Venezia e al New York Film Critics Circle Awards per la fotografia.

Woody Allen dirige magistralmente la pellicola e nonostante questa si riveli differente dalle altre del passato o comunque dalle successive, anche qui troviamo la sua tendenza a parlare di sé come simbolo di uomo con grandi difficoltà ad interagire con il resto del mondo. La peculiarità del XX secolo e ancor di più del XXI secolo sta nell’omologarsi per essere accettati giungendo alla tragica verità dell’individualismo e dell’isolamento. È per lui ricorrente la questione della personalità e del confronto. Disse “Ho un solo rimpianto nella vita: non essere qualcun altro”. Credo non ci sia frase più adatta per spiegare le ragioni di questo film.

Ilaria Calò
Ilaria Calò

Amo il silenzio, la riflessione e la parola scritta, sono affascinata da molte forme d’arte (ho un concetto di arte molto ampio) in cui includo, tra il resto, anche la natura e la scienza. Molti mi dicono che ho gusti retrò: lo considero un grande complimento. Credo profondamente in sole tre parole: “coerenza”, “rispetto” e “parola”.