Quando l’ho visto in una libreria dalla nutrita sezione nipponica, l’ho preso a scatola chiusa. Yoko Ogawa è un’autrice tanto sorprendente e così poco conosciuta in Italia che ogni suo libro è una rarità, qualcosa di prezioso. E poi, diciamocelo, un titolo così, Nuotare con un elefante tenendo in braccio un gatto, non meritava davvero di essere lasciato lì e dimenticato. Non avevo idea minimamente di cosa parlasse (e chi ce l’avrebbe?) quando mi sono addentrato in questa prosa limpida semplicissima, così diversa da altri racconti suoi per un’atmosfera serena e surreale, che ricorda a tratti una Isabel Allende.
L’eroe minuscolo di questa fiaba moderna, come spesso accade in Yoko Ogawa, non ha nome ed è un ragazzino taciturno che ha come unici amici un’elefantessa di cui rimane solo una targa e il fantasma di una bambina che chiama Mummia.
Sì, un ragazzino bizzarro. Forse è così perché con i ragazzini in carne ed ossa si trova male. Forse è colpa di quella cicatrice che si trova sulle labbra, con tanto di una fastidiosa peluria che lo rende vittima dei compagni, e poco attraente nei confronti delle ragazzine. O magari perché le parole non sono il suo linguaggio, e poco a poco ne ha imparato un altro, con cui fare grandi discorsi, con cui essere in una volta poeta, artista, atleta, oratore: gli scacchi.
È l’incontro fortuito con un vecchio buono e grassissimo, il Maestro, che gli fa scoprire questa meraviglia dell’ingegno umano. Trentadue pezzi, sessantaquattro caselle; uno spazio non più grande di un tavolino, e lì si misura non solo una battaglia, non solo uno sport, ma un’opera d’arte che si scrive in due, e in cui ogni mossa è un insieme di arguzia ed eleganza.
Sì, il suo maestro, grassissimo e goloso, che viveva in un vecchio pullman sgangerato, non era proprio un grande giocatore. Però aveva questa particolarità: trasmettere la poesia che si cela dietro gli scacchi, il loro essere una metafora dell’esistenza. Non puoi barare a scacchi, non puoi mentire. Davanti a una scacchiera sei te stesso, e ogni mossa, ogni decisione dice qualcosa di te.
È così che il ragazzino mostra un talento non indifferente, e una predilezione per giocare alla cieca, accarezzando il gatto del Maestro, sotto il tavolino che fungeva da scacchiera. Il romanzo di Ogawa qui diventa quasi un fantasy: sembra che questo ragazzino sia in grado di fare prodigi, giocando alla cieca, che gli basti immaginare, sentire irrazionalmente, per mettere il pezzo al posto giusto. Ma, forse, è così che ragionano i grandi.
Anche se non vede i pezzi, il ragazzino senza nome riesce a creare una danza, un’armonia nascosta in ogni casella della scacchiera. Questo non lo renderà mai un professionista. Al circolo scacchistico della città viene rifiutato. Però, però… al direttore viene in mente un’idea. Il Turco.
Le sue partite brillanti e spericolate ricordano una leggenda degli scacchi, Aleksandr Alechin, genio eccentrico di questa disciplina: uno di quelli che poteva muovere i pezzi, farli tornare al punto di partenza come se niente fosse successo e poi riprendere a muoverli fino a vincere. È così che il ragazzo senza nome si ritrova un nome: Little Alechin. Anzi, lo stesso automa si chiamerà Little Alechin. E qui, forse, inizia veramente la storia di Yoko Ogawa.
Nuotare con un elefante tenendo in braccio un gatto sembra un libro terso, carino, spensierato, eppure è intriso di incertezza e di un dolore sempre nascosto, sempre racchiuso nel cuore del protagonista. Little Alechin non ha amici se non i fantasmi che lui stesso ha creato, e il Maestro. L’automa diventerà per lui un suo stesso prolungamento, un doppione di cui a volte è orgoglioso, altre geloso; una maschera con cui può trovare un posto nel mondo e fare l’unica cosa che sa, vivere nell’unica acqua che conosce, che è quel mare di possibilità che si spalanca davanti ai giocatori quando iniziano una partita.
È quell’oceano di potenziali partite, più di tutte le particelle presenti nell’universo, l’unica realtà che sa conoscere, e che domina partita dopo partita, ogni volta affinando la composizione, sempre più affascinato dall’eterno gioco degli opposti, dei bianchi e dei neri che si affrontano, che non al risultato, alla vittoria in sé. E’ la strada, il sacrificio dei pedoni, il volo obliquo dell’alfiere che lo affascinano, e a cui dedica la vita, e in cui Yoko Ogawa riesce a condurci, grazie a questo piccolo Alechin, ai suoi pensieri e alla sua solitudine muta.
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