«I am the opposite of progress.
I’m the wall that it bashes against,
and I will not be the one that breaks»John Dutton, Yellowstone
Si è conclusa qualche mese fa la quarta e penultima[1] stagione di Yellowstone. L’autore, nonché regista e sceneggiatore, è Taylor Sheridan, che forse qualcuno di voi conoscerà per la cosiddetta trilogia del confine: Sicario, Hell or High Water e I segreti di Wind River. Tre dei più bei film, almeno a parere di chi scrive, usciti negli ultimi anni. Ora, con questa serie TV, Sheridan si cimenta anche sul piccolo schermo e, soprattutto, con la serialità: un genere narrativo simile eppure differente dal “classico” film[2].
La trama è presto detta: John Dutton, Kevin Costner, è il proprietario del ranch più grande del Montana. Nonostante il potere e il prestigio che ha ereditato (la sua è una famiglia antica) e costruito nei decenni (John Dutton ha rapporti con tutte le più importanti cariche dello Stato e non solo), il ranch è in crisi economica e rischia di fallire. Tuttavia, il nostro si rifiuta pervicacemente e categoricamente di vendere il terreno, malgrado speculatori e agenzie immobiliari facciano offerte e pressioni per accaparrarsi un territorio potenzialmente strategico dal punto di vista economico.
Arricchito da ulteriori elementi narrativi – tutti centrali per dare corpo e spessore alla trama, ma non essenziali e su cui quindi non mi dilungherò – lo scontro che si ingenera, tra il vecchio che non muore e il nuovo che non riesce a prenderne il posto, diventa il motore del racconto.
Quello del conflitto tra passato e presente è un topos della narrativa d’oltreoceano (pensate per esempio a Quarto potere o a Furore di Steinbeck). Gli Stati Uniti, una nazione senza storia e sopratutto una nazione in perpetuo mutamento, dopo più di due secoli di esistenza fanno i conti con il fatto che qualcosa dietro le loro spalle hanno lasciato. Come rapportarsi, allora, al passato? Sheridan, con la sua Yellowstone tenta di dare una risposta. Ed è una risposta reazionaria.
Ma facciamo un passo indietro. Avete presente Johnny Cash e le sue ballate? Ecco, se fosse un brano musicale, Yellowstone senza dubbio riprenderebbe quelle atmosfere, quelle sonorità. Sarebbe un brano “americana”, in cui, chitarra in mano e fisarmonica tra le labbra, si celebrano i tempi andati.
Non è un caso che la colonna sonora proceda proprio su questi binari. Ryan Bingham, che oltretutto recita proprio nella serie TV, Shane Smith And The Saints, Tim McGraw. Fino al classico dei classici: Willie Nelson.
La celebrazione dell’american way of life – quello degli anni Ottanta dell’Ottocento più che degli anni Cinquanta dello scorso secolo – non è però soltanto nelle musiche. Tutto, in Yellowstone, vi compartecipa. A partire dall’ambientazione. Nonostante sia un’opera pensata per il piccolo schermo, Sheridan si lascia infatti andare a campi lunghi sui boschi, le montagne e le praterie del Montana. Le grandi città vengono solo nominate. La loro vita, le scelte che vengono prese da politici e affaristi che lì risiedono, si riflettono come un’eco che risuona lontana e un po’ aliena sul Montana e la sua gente.
Certo, qualcuno potrebbe obiettare che uno Stato grande come l’Italia ma con un sessantesimo della popolazione italiana non dà certo la possibilità di riprendere skyline newyorkesi e ambientare la storia in un contesto urbano. E in effetti non avrebbe del tutto torto. Tuttavia, anche da un superficiale confronto di quest’opera con i film a cui Sheridan ha partecipato, ciò che emerge è una precisa scelta poetica.
Ambientare le proprie storie nella periferia dell’America, infatti, permette di tratteggiare in modo vivido proprio quello scontro tra passato e presente che dicevamo. Il passato, nelle opere e nelle ambientazioni di Sheridan, irrompe nel presente, lo avvinghia e non lo lascia più andare. Uomini del XXI secolo che cavalcano su distese immense, senza anima viva oltre a loro, speroni ai talloni e cappello in testa. Uomini che si tramandano mestieri antichi, come quello del cowboy (un po’ meno della cowgirl), verso cui nutrire rispetto e venerazione: «il lavoro del cowboy è un’arte senza spettatori», dice a un certo punto uno dei personaggi. Uomini che ancora coltivano i valori che cementavano la società di un tempo: il rispetto per il prossimo, l’aiuto per i più deboli, il mantenimento della parola data, la conservazione della natura.
Tutti valori che la modernità distrugge in nome dell’individualismo e della ricerca del profitto a ogni costo. E proprio per questo è necessario reagire. Ergersi come un muro contro cui l’onda del progresso sarà destinata a infrangersi, per usare le parole citate in esergo.
Questa rappresentazione non convince. Non convince soprattutto l’idea che tra passato e presente ci sia una frattura così netta, una cesura radicale da consentirci di rimpiangere i tempi che furono e disprezzare quelli attuali.
Non perché nella storia non ci sia discontinuità. I piccoli mutamenti quantitativi – mutamenti che diremmo “molecolari” – si accumulano nel corso del tempo, fino a che non si produce un salto di qualità che stravolge completamente ciò che sembrava immoto, identico a se stesso, oggi come ieri.
Eppure…
Eppure la condizione per la discontinuità è la continuità. È il fatto che determinate tendenze si mantengono, specialmente all’interno della medesima configurazione sociale. Più che rinnegamento, tra passato e presente c’è un rapporto di filiazione, in cui alcuni elementi vengono estremizzati e così portati alla luce.
È lo stesso Sheridan che, consapevole o meno, lo mostra nella sua opera. Proprio nella prima puntata della serie infatti, John Dutton chiede a uno dei suoi figli: «Quando guardi un vitello, cosa vedi?». La risposta è quasi romantica: «La vita che devo proteggere e nutrire fino a quando non nutrirà me». Ma è sbagliata. Per un proprietario di un ranch, per un allevatore, un vitello non è questo. In un vitello un allevatore vede «un investimento di duecentonovantatré dollari diventare oltre mille in sette mesi. Che nutra qualcuno se ne frega»
In questo piccolo scambio di battute è contenuto tutto lo spirito della modernità che avanza e che distrugge. È il capitalismo, che guarda al mondo come un deposito di risorse di cui appropriarsi per arricchirsi. Il muro contro cui dovrebbe infrangersi il fiume del progresso, a uno sguardo più attento, si rivela la parete da cui zampilla la sorgente.
Ecco perché abbiamo definito il punto di vista di Sheridan come “reazionario”. Di fronte allo sfacelo materiale (e morale) che gli si presenta davanti agli occhi, egli vorrebbe riavvolgere la ruota della storia. La reazione è, in questo senso, da intendersi etimologicamente.
Non si rende conto però che proprio quello che lui rimpiange, in realtà è la causa della barbarie attuale. Che l’alternativa non può essere tra un modello idealizzato di passato e un presente inaccettabile ma che ci vuole uno sforzo di immaginazione per pensare a un nuovo che risolva positivamente le contraddizioni.
Cosa resta allora di Yellowstone? Resta un grande affresco dell’americanità, delle sue miserie e delle sue grandezze. E soprattutto delle sue possibilità.
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