Eccessivo, eccentrico, esasperato. Il cinema di Terry Gilliam è celeberrimo, con numerose opere riconosciute come capisaldi della settima arte e di ampio successo. Eppure questo suo essere così anticlassico, così sopra le righe e alla ricerca di emozioni forti da parte dello spettatore lo rendono, in un certo senso, marginale all’interno del panorama hollywoodiano. Da un lato la sua estetica vistosa e anticipatrice del trash lo colloca perfettamente all’interno della cultura e dell’estetica contemporanea; dall’altro, il suo amore per lo humor nero, il barocchismo e la capricciosità delle sceneggiature lo rende ostico, difficile da digerire, e non di rado disturbante. È il caso di Tideland, uno dei film meno noti di Gilliam.
Uscito nelle sale ben diciassette anni fa, Tideland appare come un’enciclopedia del grottesco: un pastiche di tutto ciò che può essere considerato ripugnante, riprovevole e inquietante dallo spettatore, che si ritrova immerso nelle peripezie di una bambina, Jeliza-Rose, figlia di due tossicodipendenti e del suo rapporto con un ragazzo disabile mentale, e la sorella di lui. Il grottesco nasce dall’accostamento sistematico tra il mondo infantile e tutti i tabù del mondo «adulto»: droga, necrofilia, pulsione di morte: l’irrazionalità dei giochi della bambina si mescola all’irrazionalità tossica del mondo adulto, rappresentata in modo così plateale, così caricaturale, da far quasi male, da essere quasi imbarazzante.
Non c’è un tabù che Gilliam si dimentichi di annoverare in questo film, con le sue due ore che sembrano quasi quaranta, quasi due giorni, che sembrano non finire mai, come un loop, come uno di quei film tremendi di Andy Warhol, in cui per ore accade sempre la stessa cosa. Non è un caso che, alla sua uscita, il film sia stato accolto da una selva di recensioni negative: stavolta Gilliam aveva esagerato sul serio. Era troppo, tutto troppo smaccato e tutto troppo pupazzesco per poter essere considerato vero, per poter piacere.
Ma la poetica di Gilliam, in realtà, è proprio questa. In un certo senso, Gilliam procede al contrario rispetto a Tim Burton: mentre Burton attinge dall’inquietante ma lo addomestica, lo edulcora, gli dà una forma che possa essere adatta alle famiglie, ai bambini, e che sia quindi, almeno in parte, edificante, Gilliam carica le sue opere fino a farle scricchiolare internamente, in modo da renderle indigeribili.
I film di maggior successo di Gilliam, infatti, sono proprio quelli in cui ha contenuto e limato questa sovrabbondanza, in cui i personaggi e le situazioni sono meno stereotipati, e dove la scrittura si avvicina maggiormente a strutture già rodate (è noto, per esempio, che L’esercito delle 12 scimmie prende in prestito in parte la struttura del cortometraggio francese La jeteé).
I motivi di questa sovrabbondanza, di questo scricchiolamento interno, possono essere molteplici: sicuramente la comicità dei Monty Python, di cui Terry Gilliam ha fatto parte, è basata sull’eccesso e lo stereotipo, ma forse c’è anche altro. È come se Gilliam invitasse lo spettatore a una scelta. Si può prendere il film come un fumettone, come un grande giocattolo, e quindi riderne, smascherarne i cliché, prenderne le distanze. Oppure lo si può prendere sul serio, fino in fondo. Ma prenderlo sul serio significa perdersi nei suoi meandri disturbanti.
Tideland, infatti, è tutto un contrasto: la dolcezza della protagonista e la durezza del mondo che la circonda; l’irrazonalità della bimba, che vive con le sue bambole come con delle persone, e l’irrazionalità degli adulti, che cercano di soddisfare i propri desideri in modo cieco e infantile; la surrealtà della storia e l’estremo realismo delle riprese; la brutalità delle situazioni e una fotografia precisissima, curatissima, estetizzante fino alla nausea, in cui i campi di grano si fondono con citazioni di Hopper e un’estetica quasi da cartolina.
Anche qui, lo spettatore può scegliere: o perdersi nel gioco delle citazioni, dei riferimenti, della costruzione formale dell’opera, oppure immergersi nella storia, nel modo più ingenuo possibile, come fa la protagonista che, insieme a Dickens, l’unico suo vero amico, si lascia attraversare dalla vita, dalla realtà, senza farsi domande, cercando semplicemente di vivere, e vedere come va a finire. È anche questo caleidoscopico attorcigliarsi su se stesso, il grottesco del film. Come lo spettatore è chiamato alla scelta di credere o meno a ciò che gli viene mostrato, così i protagonisti sono chiamati a una scelta: accettare la realtà, oppure indugiare in un sogno consolante, che però permette di continuare la loro esistenza.
In entrambi i casi, è lo sprofondare in un loop, in un baratro che sembra non avere fondo né pareti, come la lunga caduta senza fine di Alice nel paese delle meraviglie (altra citazione ricorrente nel film). Gilliam è fortemente legato a Lewis Carroll, e dissemina le sue opere di riferimenti: come Alice il mondo di Gilliam è un mondo fantastico, stralunato, come un’allucinazone, una dose di eroina. Anche Alice ha un fondo inquietante, nella stramberia delle immagini, nel fatto che quasi mai sembra esserci una ragione forte, un motivo dell’esistenza di quel mondo fantastico. Nel paese delle meraviglie le cose esistono e nessuno sa perché. Anzi, semplicemente non c’è alcun perché: le cose sono così e basta.
È quel nonsenso a dare doppiofondo inquietante alle opere di Carroll, proprio come certe filastrocche inglesi, così crudeli senza motivo, così assurde, ma che servono proprio a esorcizzare l’insensatezza e l’assurdità del mondo.
Gilliam decide di mettere in scena proprio questo doppio fondo inquietante e irrazionale, e lo fa proprio nel modo più caricaturale possibile. È tutto ciò che fin da una certa età, nella primissima adolescenza, ci insegnano a non dire, a non pensare, a non portare fino in fondo, perché «non si fa», perché «è cattivo gusto». Perché, semplicemente, è disturbante.
Non è un live action della Disney, costruito apposta per quegli adulti che vorrebbero tanto tornare bambini ma un po’ si vergognano. È un’altra cosa. È un viaggio interminabile. Un viaggio di un malessere fisico, lancinante, pesante. Chi l’ha detto che l’arte deve per forza essere “piacevole”, deve per forza “fare del bene”, “curare”. L’arte fa e disfà; crea e distrugge. Tideland ricorda molto da vicino l’ultimo film di Fellini, La voce della luna, un film sconvolgente, che crea scandalo in chiunque conosca un po’ di linguaggio cinematografico: luci sbagliate, errori di montaggio, una sceneggiatura incomprensibile, una regia assolutamente sciatta, lasciata lì, come viene viene.
Eppure quello è il testamento poetico di Fellini: attraverso quella sciatteria incarnava i suoi tempi, incarnava un mondo che non riusciva più a comprendere, e lasciava un inno patetico, risibile, ma sincero, spoglio di ogni artificio, alla classicità, alla poesia classicamente intesa, a quella cosa antica che nessuno più riusciva a capire.
Gilliam per molti versi fa il contrario: è barocco, pieno, eccessivamente formalistico, tutt’altro che spoglio. Eppure, proprio per questa volontà di perfezione, arriva al kitsch, nella forma; e nel contenuto attinge a piene mani dal trash, dalla spazzatura, da tutto ciò che buttiamo via ogni giorno e non vogliamo vedere. E così, alla fine, arriva dove arriva Fellini: a un amalgama di kitsch e trash che scandalizza i benpensanti e i colti. Il critico prova a trasformare ciò che vede in pilloline, a cercare le citazioni, a inquadrare gli errori, i buchi di trama, a cercare i temi: “la tematica realtà-sogno”. Ecco, con la formuletta abbiamo già messo in castigo l’autore, l’abbiamo reso inoffensivo.
Ma, se lo prendi sul serio, Gilliam non si fa mai rendere inoffensivo. La sua poesia è una poesia che emoziona tanto più ci abbandoniamo a lei in modo ingenuo, cascando come cascava Alice nella tana del bianconiglio.
Uno degli aspetti più belli e poetici del film è il suo mettere in scena una bambina vera, e i giochi di una bambina vera. Jeliza-Rose gioca con le bambole, con il suo amico, con tutta la sua vita stando in un equilibrio difficilissimo tra realtà e finzione, proprio come fanno i bambini, che mantengono per ore, per giorni l’architettura finzionale dei loro giochi in modo coerente, pur sapendo che sono giochi, quasi vivendo un doppio binario tra gioco e realtà. E questa capacità, che negli adulti latita, ci affascina ogni volta.
Però Gilliam non è Tim Burton. Non dice, come in Big Fish, che l’importante è raccontarsi storie. Sì, lo sa, lo sa che è importante, lo sa che è bello, e sa farci sognare, nel Barone di Munchausen, o nel Don Chisciotte. Ma in realtà Gilliam è caustico, e sa che cadere nella tana del bianconiglio non è gratis. Gilliam ci consegna sempre alla tragicità del mondo.
Possiamo fuggirlo quanto vogliamo, il mondo, ma lui tornerà sempre lì: quando una parola è detta, e non si può riparare; di quando qualcosa è accaduto, e non si può tornare indietro. O quando una persona è morta, e non si rialzerà più. Non ti parlerà più. Non c’è più, e bisogna farsene una ragione.
Ecco, alla fine, capiamo i personaggi e le marionette che Gilliam mette in scena. Capire come può essere che una persona si faccia fare una siringa di eroina da sua figlia di nove anni; o che una persona arrivi a voler imbalsamare la persona che ama, fino a farla sedere a tavola come se non fosse morta. Alla fine, capiamo. I personaggi non sono matti, pupazzi, gente inverosimile nata dalla mente di un regista visionario: sono, semplicemente, individui, come noi, che a un certo punto hanno incominciato a credere alle loro storie.
È in questo pozzo nero che Gilliam mette le mani ogni volta. Proprio nella società dei sogni, come la nostra. La società dello Stay Hungry, Stay Foolish. La società dello storytelling, la società che si racconta storie bellissime, usandole come oppio.
«E ora torno nel mondo dove nascono i sogni», dice il padre della protagonista, prima di iniettarsi l’ultima dose di eroina. Il sogno è medicina e fuga, il sogno è male e lenimento. Non puoi né farne a meno né abbandonartici. La corsa verso il principio di realtà, come l’ha chiamato Freud, non è una corsa lineare, facile, in cui basta accettare la propria condizione, “farsene una ragione”. Ogni volta che accetti la realtà muore una parte di te. Ogni volta che la rifiuti, muore lo stesso una parte di te.
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