Zdzislaw Beksinski

Tiresia tra T.S Eliot e Dürrenmatt: i frammenti di verità

«Nam Sibyllam quidem Cumis ego ipse oculis meis vidi in ampulla pendere, et cum illi pueri dicerent: “Σίβυλλα, τί θέλεις;” respondebat illa: “ἀποθανεῖν θέλω”».

«Infatti ho visto la Sibilla con i miei occhi, a Cuma, pendere in un’ampolla, e quando quei ragazzi le chiedevano: “Sibilla, cosa desideri?”, ella rispondeva: “Morire”».

(Testo latino: Petronio, Satyricon, 2011, Mondadori, Milano, p.124. Traduzione: Gabriele Stilli)

La terza parte (The fire sermon) del poemetto La terra desolata (1922) del poeta statunitense T.S. Eliot, vissuto a cavallo tra il XIX e il XX secolo, fa riferimento al Sermone del Fuoco[1] predicato da Budda contro la lussuria e le altre passioni che turbano l’uomo. Il fuoco distruttore, negli ultimi versi di questa sezione, verrà infatti assunto come forma ultima di purificazione.

Sullo sfondo infuocato s’intravede dunque un’indicibile città semi-distrutta dal nichilismo degli uomini (ma è Londra, s’intuisce). Il cieco Tiresia “assiste” allo squallido incontro erotico tra un impiegato foruncoloso e una dattilografa tediata nell’appartamento di quest’ultima. Qualsiasi briciola di rapporto umano è annientata dall’aridità del vivere: non esistono più valori. Lo stesso rapporto tra i due ragazzi è posticcio, blando. Come in un incubo, Tiresia avverte tutta la falsità della situazione, ma non riesce a svegliarsi. Perché l’incubo è diventata l’unica realtà; i sogni sono l’opaco alone del passato.

Tiresia è un nome noto: nella ricca mitologia greca, egli non era solo un indovino, bensì il miglior indovino che avesse mai messo piede sulla Terra. Uno dei miti più diffusi racconta che, passeggiando sul monte Cillene, egli vide due serpenti che copulavano e decise di uccidere la femmina. Nello stesso istante Tiresia fu trasformato da uomo a donna e visse in questa condizione per sette anni, provando tutti i piaceri che una donna potesse sperimentare. Passato questo periodo di tempo, venne a trovarsi di fronte all’identica scena dei serpenti. Questa volta uccise il serpente maschio e nello stesso istante ritornò uomo.

Ma non è finita qui: un giorno Zeus ed Era si trovarono divisi da una controversia. Chi, in amore, prova più piacere? L’uomo o la donna? Non riuscendo a giungere a una conclusione, poiché Zeus sosteneva che fosse la donna mentre Era sosteneva che fosse l’uomo, decisero di chiamare in causa il povero Tiresia, considerato l’unico che avrebbe potuto risolvere la disputa essendo stato sia uomo sia donna.

T. S. Eliot
T. S. Eliot

Interpellato dagli dei, Tiresia si impegnò con tutte le sue forze nello spiegare come il piacere sessuale si componesse in realtà di dieci parti: l’uomo è in grado di provarne solo una, la donna nove. Una donna, quindi, prova un piacere nove volte più grande di quello di un uomo. La dea Era, infuriata perché l’indovino aveva svelato un tale segreto, lo fece diventare cieco, ma Zeus, per ricompensarlo del danno subito, gli diede la facoltà di prevedere il futuro e il dono di vivere per sette generazioni. Insomma, la peculiarità di Tiresia non sta nell’aver provato entrambi gli organi genitali, piuttosto nell’essere uno dei pochi a possedere la verità in quanto «colui che ha visto tutto».

Ma, ritornando al Tiresia del poemetto di Eliot, come potrebbe coesiste il suo possesso della verità (e, in senso lato, proprio l’intero concetto stesso di verità) in un mondo distrutto dall’ipocrisia umana come quello descritto dal poeta statunitense?

Una possibile spiegazione ci viene suggerita dall’epigrafe posta all’inizio dello stesso che avete letto come di questo articolo: essa è tratta dal Satyricon di Petronio Arbitro (I secolo d.C.). Nella famosa scena del banchetto, Trimalchione narra l’inquietante storia della Sibilla Cumana che, per l’estrema decrepitezza (aveva infatti ottenuto dal suo dio Apollo l’immortalità, ma non l’eterna giovinezza), è ridotta a proporzioni minime dentro un’ampolla sospesa, per essere sottoposta alla derisione dei ragazzi del paese. Questa è solamente una delle tante storie raccontate da Trimalchione, volgare ignorante: egli vuole parlare di tutto e se racconta fatti eroici o mitici, inevitabilmente li degrada, volgendo l’epico nel comico o nel grottesco.

La storia della Sibilla Cumana è, in questi termini, peculiare. Nel VI libro dell’Eneide, Virgilio l’aveva anzitempo cantata grande poetessa di Apollo (“sanctissima vates,/ Praescia venturi”, VI, vv. 65-66), custode dell’antro che immette all’Averno, interlocutrice e guida di Enea nella discesa agli Inferi conclusa dalla rivelazione, per bocca dell’ombra del padre Anchise, delle future grandezze di Roma. Nella nuova versione dei fatti, invece, l’antro si riduce ad un’ampolla, l’atmosfera di mitica magia e preveggenza a circostanza cialtronesca, la cruciale domanda sul futuro a un interrogativo minimo che riguarda la persona stessa della Sibilla così miseramente torturata; e infine la profezia si chiude in un personale desiderio di morte. L’epigrafe è, dunque, pienamente utile nel delineare l’ideologia del poemetto: essa pone il tema della degradazione e introduce la figura del veggente che non “vede” più nulla, se non la desolazione del volgare, del presente.

A.Y Jackson, Bosco, sera, 1918
A.Y Jackson, Bosco, sera, 1918

Il senso fondamentale è qui: si percepisce l’amara e silenziosa presa di coscienza del decadimento della realtà. Eliot fa coincidere la perdita dei valori con la fine della pacata esistenza terrena. Quella Pizia vecchia, seccata e stizzita è il prodotto di una generazione; è la tracotanza umana del voler strappare le notizie dal futuro tramutata in corpo. Ma, siccome la letteratura è spesso un lento rincorrersi di idee e un accorato riflesso in uno specchio lungo secoli, le stesse identiche figure così importanti nell’ideologia del poemetto (la Pizia e Tiresia) sono rinate sotto la penna dello scrittore svizzero Friedrich Dürrenmatt e il significato che veicolano è ancora più sorprendente se accostato a quanto detto su Eliot.

Con meraviglia, le immagini combaciano e sembrano sprofondare l’una nell’altra. Nel romanzo del 1998, Das Sterben der Pythia (La morte della Pizia, il cui titolo è già abbastanza eloquente), Dürrenmatt tenta di rielaborare il mito di Edipo rivedendo la scala di valori della profezia della Pizia: qui il vero sovrano di Delfi non è Edipo, bensì la città stessa, sottoposta ad un decadimento materiale e morale che sfiora soltanto le immagini polverose di The Waste Land, ma che si riallaccia idealmente ad uno dei temi cardine della letteratura mondiale: la critica verso un mondo che ruota costantemente su se stesso, ma che in fin dei conti non cambia mai le regole di base.

Così, l’esistenza umana immaginata da Dürrenmatt è la metafora dell’insondabilità e dell’inafferrabilità della verità, poiché, dall’alto, domina sovrano l’Enigma. L’acme del romanzo giunge nel monologo finale di Tiresia in cui egli afferma: «La verità resiste in quanto tale se non la si tormenta

Non tormentarla, la verità? In fondo è l’unica cosa che non possediamo veramente, ma – quando manca – non c’è posto per nient’altro. Siamo quindi lontani dal mondo di T.S. Eliot, immaginato nel lontano 1922? Qui, nell’underground del XXI secolo, la verità manca ancora: solo che nessuno si preoccupa più di ricercarla.

 

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In copertina: Opera di Zdzislaw Beksinski

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