Il vecchio che leggeva romanzi d’amore: una foresta tra la vita e la morte

Henri Rousseau, Il sogno

Durante la sua vita tra gli shuar non ebbe bisogno dei romanzi per conoscere l’amore. Non era uno di loro, e pertanto non poteva avere mogli. Ma era come uno di loro, e quindi lo shuar anfitrione, durante la stagione delle piogge, lo pregava di accettare una delle sue spose per maggiore orgoglio della sua casta e della sua casa. La donna offertagli lo conduceva fino alla riva del fiume. Lì, intonando anents, lo lavava, lo adornava e lo profumava, per poi tornare alla capanna ad amoreggiare su una stuoia, coi piedi in alto, riscaldati dolcemente da un fuoco, senza mai smettere di intonare anents, poemi nasali che descrivevano la bellezza dei loro corpi e la gioia del piacere, aumentato infinitamente dalla magia della descrizione. Era amore puro, senza altro fine che l’amore stesso. Senza possesso e senza gelosia

(L. Sepúlveda, Il vecchio che leggeva romanzi d’amore, Guanda, Parma, 1998 (1989), pag.49).

“C’è qualcosa di strano in questa foresta. C’entrerà sicuramente con la repulsione o con l’amore”.

Pensi a questo mentre scorri verso la sponda assieme al fiume Nangaritza, nel cui riflesso «il cielo, che gravava minaccioso a pochi palmi dalle teste, sembrava una pancia d’asino rigonfia. Il vento, tiepido e appiccicoso, spazzava via alcune fogli morte e scuoteva con violenza i banani rachitici che decoravano la facciata del municipio».

Nel piccolo villaggio di El Idilio incontri Antonio José Bolìvar, un anonimo vecchio, all’occasione sdentato (in tasca porta infatti una dentiera per quando deve mangiare o parlare a lungo) che risiede in una parca capanna tra banani secchi e foglie smunte dal tempo, quasi dimenticato perfino da se stesso. Nei suoi occhi, che sembrano fluire da costellazioni siderali, in un istante che si fissa eterno nella memoria, scorgi lo stesso amore e la stessa repulsione che ti spinsero in questa foresta. È una foresta strana e tristemente diafana. E il tempo sembra buono per scoprire qualcosa di più sulla tua vita.

Proprio lì, il giorno in cui lo conosci per la prima volta, Bolìvar decide di infilarsi la dentiera. Non c’è cibo attorno, dunque ti aspetti che voglia rivelarti i segreti taciuti della vostra impalpabile affinità, invece prende a calci i romanzi dalle copertine smussate che intralciano l’uscita e se ne va. Ti lascia solo con una tripla razione di umidità, i Mosquitos e una domanda: “Come sono finito qui dentro?”.

Henri Rousseau, Tigre in una tempesta tropicale, 1891
Henri Rousseau, Tigre in una tempesta tropicale, 1891

Scopri che è corso al molo del villaggio perché i difensori della natura, i guerrieri shuar, sono arrivati al mattino trasportando sulla loro canoa il cadavere martoriato di un «uomo giovane, di non più di quarant’anni, biondo e dal fisico robusto» e per questo hanno rischiato l’arresto. Il sindaco, infatti, li accusava dell’assassinio del gringo, ma Bolìvar- assicurandosi ancora la dentiera- si mise a dipingere così bene con le parole tutti i motivi per cui gli shuar non avrebbero mai potuto ammazzare un uomo che quasi ne rimani rapito anche tu, che di tutto questo non importa nulla. Quando poi Bolìvar lo fa notare alla folla, posi gli occhi anche tu sul cadavere e ai segni degli artigli di un tigrillo[1] sul suo corpo.

Per qualche ragione sai che Bolìvar ha impresso quegli stessi segni nel fondo dell’anima, così come ha ben presente che gli shuar, rocce sconvolte dall’impetuosa corrente della foresta, sono traditi dall’indole pacifica; loro, esseri demoniaci e invincibili, dai quali era stato raccolto e soccorso quando, colono in terre impossibili, aveva tentato di violentare la foresta e da questa era stato spazzato via. Bolìvar si ritrovò a passare molto tempo con gli shuar e diventò quasi uno di loro, un fratello. E un compagno.

Nella quotidianità piena e diversa della tribù indigena, Bolìvar riuscì a suggere tutta la filosofia delle cose e i loro segreti; imparò, inoltre, che la Grande Madre risiedeva in ogni gesto, in ogni sospiro. In un certo senso era la loro stessa vita. Li osservava, li cresceva: era la grande foresta amazzonica.

Quindi accadde il fatto. Usciti di senno, dei bianchi uccisero un compagno di Bolìvar. Egli non poté far altro che raccogliere le spoglie dell’amico e vendicarlo. Così fece, ma nella maniera errata. Perché lo uccise e basta, senza il filtro dei rituali che donano un senso alla morte. Senza quel filtro, fu una morte e basta, e questo sconvolse l’ordine del mondo. Dovette andarsene, corroso da quel peccato e approdò in quella capanna dove lo incontrasti poco fa, insieme ai segni della bestia che solo adesso riconosci nello sguardo affamato e intermittente del vecchio.

Henri Rousseau

Le zanne del tigrillo risplendono quindi in silenzio nella notte dei pensieri di Bolìvar, e ancora una volta li scopri simili ai tuoi. La bestia ha ingaggiato uno scontro esistenziale con Bolìvar; anzi, forse è una lotta che si svolge dall’alba dei tempi, o magari dall’istante in cui egli capì che gli impulsi vitali della foresta sono identici a quelli della belva, ma distanti enormemente da lui, quasi come galassie lontane. E stesse sono le cause che muovono la foresta e l’animale.

La Grande Madre, l’eco di tutto quello che viene detto e vissuto, è l’istinto a procacciarsi l’esistenza. Tutto quello che circonda l’uomo è semplicemente ciò che- per amore e repulsione – non potrebbe esistere all’infuori del suo contesto.

E se dentro a tutto questo ci sei finito, è perché fai parte del corso della Vita. Qui non c’è poesia né salvezza, ma tra la foschia umida delle fronde potrai notare l’orma incerta di un altro uomo perso nel vagare. Potrebbe essere Antonio Jose Bolìvar, un incauto viaggiatore, o magari potresti essere proprio tu. E durante la lettura di questo romanzo di Luis Sepúlveda potresti scovare un lumicino che ti scorta: tra romanzi d’amore che fanno finta d’insegnare la vita ed eventi di morte che, invece, la insegnano davvero, lo scrittore cileno riesce a immergere il nostro pensiero nella fitta boscaglia di senso che pervade tutto Il vecchio che leggeva romanzi d’amore.

Ma, in conclusione, quello che più rapisce dell’opera di Sepúlveda è la raffigurazione intima che ciascuno di noi può trarre dalla mitica ed evanescente foresta: simbolo, messaggio, critica, pensiero. A volte tutto assieme, spesso niente di tutto ciò. Per me è stata una rivelazione della mia vita: quella che potrebbe essere un moderno castello del mago Atlante è anche la proiezione delle nostre decisione e delle nostre scelte. Tra liane ed ombre si celano i fantasmi del passato e le incongruenze del presente. Ogni tronco è un secondo della tua vita e ogni respiro diventa stessa radice dell’umidità. E, una volta dentro, capisci che dalla Vita non puoi scappare, per quanto ti trascini con sé in paludi e terragni frammenti di distruzione. Sei solo una foglia sgualcita mossa dal vento, parte del tutto e simbolo di niente.

E nella sua impotenza scoprì che non conosceva abbastanza bene la foresta da poterla odiare.

 

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In copertina: Henri Rousseau, Il Sogno, 1910, (204,5×298,5 cm), Museum of Modern Art, New York

Mattia Lo Presti
Mattia Lo Presti

Cercatore d’Essere; Ignobile scrittore di poesie; Fanatico lettore onnivoro. Sono nato a Como nel 1993. Mi sono diplomato al Liceo Classico A. Volta lottando principalmente contro la pigrizia e la matematica. Dimenticavo: sono recidivo. Per questo, forse, mi sono laureato in Lettere Moderne (indirizzo filologico-letterario) presso l’università degli studi di Pavia. Ora vivo a Barcellona.