Al di là di sei fiumi e tre catene di montagne sorge Zora, città che chi l’ha vista una volta non può piú dimenticare. […] Zora ha la proprietà di restare nella memoria punto per punto, nella successione delle vie, e delle case lungo le vie, e delle porte e delle finestre nelle case, pur non mostrando in esse bellezze o rarità particolari. L’uomo che sa a memoria com’è fatta Zora, la notte quando non può dormire immagina di camminare per le sue vie e ricorda l’ordine in cui si succedono l’orologio di rame, la tenda a strisce del barbiere, lo zampillo dai nove schizzi, […] Cosicché gli uomini piú sapienti del mondo sono quelli che sanno a mente Zora. Ma inutilmente mi sono messo in viaggio per visitare la città: obbligata a restare immobile e uguale a se stessa per essere meglio ricordata, Zora languì, si disfece e scomparve. La Terra l’ha dimenticata.
(I. Calvino, Le città invisibili, O. Mondadori, Milano, 1993)
La vita è un corso costante di eventi che non si arresta mai. Certo, a volte ci piacerebbe poter fermare la barchetta in cui ci troviamo, sbattuti qua e là in mezzo ad un fiume che corre all’impazzata; prendere un po’ di fiato, magari. Ma questo è naturalmente impossibile e a volte l’unica cosa che si può fare è sperare che più in là non ci aspetti una sonora cascata.
Qual è il destino delle persone che cercano di ancorarsi al reale, al terreno, impuntando i piedi, scalciando l’aria con testarda ostinità? Sandro Veronesi nel suo ultimo romanzo, Il colibrì (Vincitore del premio Strega 2020), ci parla di Marco Carrera e della sua vita, che altro non è che una serie di continue sospensioni ma anche di coincidenze fatali, di perdite atroci e amori assoluti. Non precipita mai fino in fondo: il suo è un movimento incessante per rimanere fermo, saldo, e quando questo non è possibile, trovare il punto d’arresto della caduta – perché sopravvivere non significhi vivere di meno.
Il gran merito di questo romanzo, a mio avviso, sta nel saper descrivere perfettamente questa dicotomia, questa scissione interna: la necessità di andare avanti e la voglia di fuggire, nascondersi e rimanere congelati nella propria sofferenza. Chi ha, purtroppo, sofferto un lutto o affrontato una malattia (o la possibilità di essa) sa a cosa faccio riferimento: quante persone sono seppellite dentro di noi? si chiede Veronesi e soppesa questa sensazione di attesa immobile e di oppressione costante che mantengono fermi in un equilibrio che nella mente si insidia con intenzioni eterne.
Il pericolo di rimanere incastrati in questo labirinto mentale è il meccanismo che sta alla base dell’intrigo che genera il labirinto stesso; spesso siamo i nostri stessi carnefici e anche Marco Carrera lotta in un universo avverso che sembra navigare in controcorrente.
Leggendo il romanzo, mi è sorto quasi spontaneo questo parallelismo con una delle città invisibili di Italo Calvino, dove è la memoria a causare l’oblio; dove chi rievoca, dimentica e chi vive di ricordi, svanisce lentamente. Ed è un punto molto importante per comprendere Il colibrì.
Il romanzo di Veronesi, infatti, scava nel profondo del dolore e della memoria per trovare il senso a due aspetti importanti di quest’ultima: la sua funzione basica e la sua fallibilità o tendenza a distorcere. Evidenzia, prima di tutto, il ruolo essenziale della memoria per il nostro funzionamento intellettuale e la nostra attività quotidiana, nonché per la nostra identità personale. Se è vero che siamo quel che mangiamo, è forse ancora più sensato dire: siamo quel che ricordiamo. E a tal proposito ricordo questa citazione di Luis Buñuel estratta da Mon dernier soupir (Parigi, 1982), libro «semi-biografico», secondo lo stesso Buñuel, in cui raccoglie i ricordi della sua vita, tra cui forse «qualche falsa memoria».
Bisogna incominciare a perdere la memoria, anche solo a pezzi, per rendersi conto che è proprio questa memoria a fare la nostra vita. Una vita senza memoria non sarebbe una vita, così come un’intelligenza senza possibilità di esprimersi non sarebbe un’intelligenza.
Buñuel stesso in un passaggio del libro sottolinea che l’oblio non è l’unica minaccia alla memoria. In effetti, i falsi ricordi e le tendenze distorte costituiscono un’altra minaccia, ma esprimono anche la realtà dei nostri ricordi errati. La nostra memoria non viene copiata esattamente come potrebbe fare una videocamera o un regitratore, ma ricostruita o costruita da zero. Riconoscere questo tratto ricostruttivo della nostra memoria significa riconoscerne le debolezze e allo stesso tempo la flessibilità, o comunque rintracciarne la realtà umana, che non è mai perfetta e a volte si ingarbuglia su se stessa.
E in questo vortice di memoria e realtà scorgiamo barlumi di dolore: non è un caso che il cervello umano spesso ottunda o dimentichi eventi dolorosi o sgradevoli della nostra vita in un modus operandi quasi da “salvavita”. Secondo Veronesi il dolore sta alla base di questo meccanisco mnemonico fallace e in continuo movimento per creare, ricostruire, cambiare tessere del mosaico ed è impossibile per un essere umano vivere senza memoria e senza dolore, a meno che non voglia fare la fine di un colibrì, perchè come il colibrì mette tutta la sua energia nel restare fermo.
Pertanto, dovremmo amare la nostra memoria e riconoscerne la sua fragilità mentre cerchiamo di usarla e aggiustarla con la massima precisione. Anche se spesso difficile (soprattutto di questi tempi), dovremmo farlo con un sorriso sincero, in modo che se perdiamo la memoria, rimarrà comunque in noi quel sorriso gentile, calmo e rassicurante che Buñuel ci racconta aver osservato con sua madre sul letto di morte, che è un’espressione della visione benevola del mondo e delle persone. Il sorriso come ricordo o sintesi di una vita in pace con se stessi. Il sorriso di Marco Carrera quando legge le lettere del suo amore platonico o quando guarda negli occhi della nipote. Il nostro sorriso come miglior ricordo per gli altri.