Ddurmisciri
ddurmisciri
daccussì
cuccatu bbiatu
nta st’aggenda…
ddurmisciri
daccuddì
cuccatu bbiatu
nti to occhi…u vidi ca sugnu cchi sugnu babbu?
ti pensu macari di notti
(megghiu: cussì nuddu mi vida
nuddu si nn’accorgi)Mancu stiddi
e a Luna è una e mmenza.
Ddassubbra
qualcunu s’ammazza ni sugnu
sicuru.
Ma iu
iu ccù ll’occhi ncuddati a ttia
(macari si nun ci sì)
iu
cchi pozzu fari?Ora
ccuminciu a ttagghiari
ccà.
Ddè.
U vidi?
Aiu
fattu
na fuuredda.
Cc’è u santu
(di stà poesia)
da
mò poesia.Ma bbestia
ca sugnu bbestiabbestia
mi staiu mangiannu
na notti scrivennu
cchi ddisulazzioni…ADDORMENTARSI – addormentarsi / così / disteso beato / in quest’agenda… // addormentarsi / così disteso beato / dentro i tuoi occhi… // lo vedi che sono che sono stupido? / ti penso pure di notte / (meglio: così nessuno mi vede / nessuno se ne accorge) // Niente stelle / e la Luna è a metà. / Lassù / qualcuno si ammazza ne sono / sicuro. / Ma io / con gli occhi addosso a te / (anche se non ci sei) / io / cosa posso fare? // Ora / comincio a tagliare / qui. / Macché. / Lo vedi? / Ho / fatto / una figuraccia. / C’è il santo / (di questa poesia) / della / mia poesia. // Ma bestia / che sono due volte bestia / sto divorando / una notte scrivendo / che desolazione… /
(trad. R. Pennisi)
Si fa un gran parlare in questi giorni di Pier Paolo Pasolini, dopo quarant’anni di voluto silenzio. Pasolini fu un grande fautore dei dialetti come identità culturale delle popolazioni italiche, legati alla terra e quindi al mondo contadino e a uno stile di vita che il consumismo ha volutamente distrutto al fine di affermare se stesso. Il processo di massificazione delle identità popolari ha avuto come conseguenza la scomparsa del dialetto nell’uso quotidiano del popolo, a favore dell’italiano, idioma imposto dal centro-nord della penisola dopo l’Unità d’Italia. È stato un cammino lento ma inesorabile iniziato nell’era fascista, che ha trovato piena realizzazione nel secondo dopoguerra, con l’avvento della televisione.
Salvo Basso, nato a Giarre nel 1963, laureato a pieni voti in Filosofia a Catania, ha vissuto tutta la sua breve vita a Scordìa, un paese della Piana di Catania, dove ha ricoperto il ruolo di Vicesindaco e Assessore alla cultura. Soprattutto in veste di Assessore ha fatto di Scordìa una meta d’incontri culturali di alto livello, che diedero un forte impulso anche all’economia locale con una valorizzazione dell’identità culturale siciliana. Purtroppo Salvo Basso, a causa di un tumore cerebrale, ci ha lasciati nell’aprile del 2002, a soli trentanove anni.
Nei suoi versi è il parlare quotidiano che senza enfasi è reso aulico dalla composizione poetica. Un linguaggio fatto di domande e d’imprecazioni, dove il piccolo e diseredato dialetto è degnamente accolto nel Parnaso letterario, come emblema di un’identità linguistica che va sparendo, ma che è presente nella nostra formazione e non si può e non si deve ignorare. Del resto nella lingua parlata, l’italiano è stravolto dalla gergalità a volte brutta e sguaiata, che è rimasta l’ultima propaggine delle lingue regionali.
Basso tenta con la sua poesia il recupero del dialetto come lingua classica, e lo fa traducendo in lingua siciliana il libro di Qohelet, meglio conosciuto come il libro dell’Ecclesiaste. La traduzione è il mezzo della ricerca sulla parola, esperienza che accomuna Basso con Pasolini, il quale nell’agosto del 1945 realizzò, insieme con altri intellettuali di Casarsa, l’Academiuta di Lenga Furlana, l’Accademia di Lingua Friulana. Una ricerca all’interno di un linguaggio che va sparendo è un’impresa da esaltare, soprattutto in un momento storico dove l’identità stessa della lingua italiana è messa in serio pericolo.
Le poesie di Salvo Basso mantengono tutte quante la caratteristica musicalità greco-sicula che pervade la poesia di quest’isola: terra caratterizzata da forti contrasti naturali e soprattutto sociali. Storie millenarie s’impastano in questo linguaggio che, proprio perché antico, ha ancora tutto il fuoco autentico dei sentimenti umani.
Ora v’invito a leggere questi versi:
ora comu ora e ancora tutti i
manu ti vulissi stringiri picchì
stai mali e ssi lluntana ma ppoi
pensu a tuttu u suffrimentu
ca mi dasti… ccu na parola e na
vutata d’occhi.ora come ora tutte le / mani ti vorrei stringere perché / sto male e sei lontano ma poi / penso a tutta la sofferenza / che mi hai procurato con una parola e con / una gettata d’occhi
Per quanto abbia cercato di tradurla al meglio, la poesia esprime il colmo della commozione proprio in quelle parole come: vulissi stringiri – suffrimento ca mi dasti – na vutata d’occhi, la combinazione musicale delle doppie “s“ di vulissi o le “f“ di suffrimento esaltano l’intenzione emotiva della poesia.
Nella poesia di Basso la disperazione dell’incomprensione è tutta in quel “tu“ sospeso, che diventa donna, poesia, solitudine dell’essere umano, che cerca una parola che lo abbracci e uno sguardo che lo scaldi.
Lo stesso “tu” che ammanta la poesia Ddurmisciri (Addormentarsi), che pur rimanendo finissima poesia d’amore di alto taglio classico, acquista un’oggettività realistica proprio nel dialetto, in quelle domande e soprattutto in quelle imprecazioni ripetute come bbestiabestia, colloquiali e spontanee come è nel parlare quotidiano, privo di sentimentalismi sterili e ridondanti.
Concludo questa breve chiacchierata su Salvo Basso con questi versi tratti da Qo, silloge uscita nel 1999, che per la loro tagliente schiettezza lasciano tutti noi pensierosi ma anche incoraggiati a cogliere il meglio di quello che la vita può donarci e Salvo Basso nella sua breve esistenza lo ha dimostrato, affrontando una malattia inesorabile con l’ironia poetica, la sola che gli fa scrivere poco tempo prima di morire: “U puntu cchiù luntanu / unni pozzu arrivari / è sta paggina“ (“Il punto più lontano / dove posso arrivare/è questa pagina”).
«i
Iorna
su tutti
contati
~a morti
Bbabbu
veni
ppì mmia
e
ppì mia..
ma cchi
nn’ arresta
~e allura mangia vivi futti
accucchia i iorna ca nun si fanu cuntari»I / giorni/ sono tutti /contati / la morte / Babbeo / viene / per me / e / per me / ma chi la ferma / e allora mangia vivi e fotti / maledici i giorni che non si fanno contare.
(Da Salvo Basso, Versi, 1997-2002, a cura di Sebastiano Leotta, Ed.Novecento).