Boris è riconosciuta in maniera pressoché unanime come il prodotto più innovativo e sconvolgente della scena televisiva italiana degli ultimi quindici anni. La serie, andata in onda per tre stagioni dal 2007 al 2010, seguita da un film uscito nel 2011 e rinnovata per una quarta stagione agli inizi del 2021, racconta le disavventure, le miserie e i problemi che affliggono la produzione di un fittizio sceneggiato televisivo intitolato Gli Occhi del Cuore 2, e attraverso questo piccolo quadro raffigura e dipinge l’intero scenario italiano.
Le riflessioni dell’articolo si basano sulla trama delle tre stagioni, e quindi potrebbero costituire uno spoiler per chi non avesse terminato la visione.
La serie, scritta da Luca Vendruscolo, Giacomo Ciarrapico e dal compianto Mattia Torre, era uno spaccato assai accurato dell’Italia nella fase crepuscolare del ventennio berlusconiano, prima dell’irrompere nella vita sociale e politica della grande crisi economica del 2008, ma si è guadagnata fama di classico nei dieci anni passati da allora, imponendo di peso i suoi stilemi e le sue citazioni e coltivando un pubblico affezionato, composto sia da chi la seguì all’epoca, in larga parte tramite la visione pirata che ne decretò il successo, sia da chi la riscoprì in seguito, nei suoi passaggi sulla tv a pagamento e soprattutto su Netflix. Io faccio parte di questa seconda categoria: ho recuperato Boris poco prima del dilagare della pandemia di Covid-19, e uno dei fattori che più me l’hanno fatto apprezzare è stato appunto poter vedere in controluce le differenze tra due ere politiche e sociali radicalmente differenti, e al contempo la triste presa di coscienza della profonda continuità di quei fenomeni irrisi e criticati.
La qualità infatti che contraddistingue Boris non è solo una disamina spietata, senza compromessi e lucidissima di molte sciagure del mondo dello spettacolo e non solo, ma di aver mascherato questa narrazione sotto l’aspetto di una satira graffiante e cinica, presentando una trama fortemente comica, personaggi ridicoli ed una scrittura esilarante e raffinata. A tutti gli effetti, Boris è in primo luogo una storia comica e secondariamente uno spaccato di società. Ciò rende ancora più stupefacente il successo mantenuto dalla serie negli anni passati dal suo debutto, quando la società che raffigurava era profondamente mutata, e dimostra il suo status di classico in grado di parlare in maniera diversa a gruppi differenti, ma mantenendo sempre un suo messaggio rilevante; compito, come sappiamo, ancora più difficile per la commedia, che tende a vivere di e nel contesto che l’ha espressa.
Perché, quindi, presentare questa serie ai – pochi – lettori che ancora non la conoscessero parlando prima del suo tratto politico e solo dopo del suo carattere comico? A parer mio, perché questi due aspetti sono inscindibili, e solo affrontandoli insieme si può raggiungere la pienezza del quadro illustrato dai tre autori. Fino ad ora ho descritto Boris come un’opera comica, quando avrei dovuto definirla “umoristica”: come nella definizione di Pirandello, la risata non nasce solo dalla presentazione di vicende paradossali e da elementi contraddittori, ma dalla sottile riflessione che vi si nasconde dietro.
Il grande tema di Boris è in realtà una constatazione profondamente nichilista: il sistema – dello spettacolo, ma dell’Italia per estensione – è una società ingiusta e irrazionale, dove vengono premiati e prevalgono comportamenti senza valore e spesso anche dannosi per lo stesso sistema, che pure viene piegato a perpetrare quella stessa situazione. Gli Occhi del Cuore 2 è una serie di qualità infima, realizzata senza la minima cura e recitata da attori incapaci, vanesi e pieni di sé, ma al contempo non potrebbe essere altrimenti perché a troppe persone conviene che continui in questo modo: dalla Rete, che così ha un prodotto sicuro e confortevole da piazzare sul mercato, a tutti i lavoratori coinvolti in essa a vari livelli, spesso gente del tutto incapace e impreparata al ruolo che ricopre, e che nell’accontentarsi di fare male hanno la sicurezza di una vita tranquilla, incompatibile con la pretesa di far funzionare le cose.
Tutto questo sembra ricevere una grande scossa nella terza stagione, attraversata da un grande arco narrativo che vede la troupe impegnarsi in un nuovo progetto, Medical Dimension, dove per una volta si cerca di realizzare, contro tutto e tutti, un lavoro di qualità, senza più accontentarsi di fare le cose “alla cazzo di cane” (mantra del regista, e ideale linea d’azione de Gli Occhi del Cuore) e perseguendo invece una creazione ricercata e sottile, senza timori e compromessi. L’esito in realtà sarà profondamente negativo: Medical Dimension è una trappola architettata dalla stessa Rete allo scopo di farla fallire e stroncare così ogni ulteriore progetto in tal senso, perché “una fiction diversa (…) non solo non è possibile, ma non è neanche augurabile[1]”. Questo porta i personaggi a rassegnarsi allo status quo, e così in un finale parossistico rielaborano tutto il materiale a loro disposizione per presentare Gli Occhi del Cuore 3, una nuova stagione ancor più esageratamente pacchiana e mediocre, e come tale assolutamente accettabile nel panorama rassegnato della televisione italiana.
La terza stagione di Boris è la più peculiare, e non a caso era stata concepita come atto conclusivo della storia prima del revival, laddove il film dell’anno successivo fungeva essenzialmente da epilogo e ultimo contrappunto sul messaggio. Una quota considerevole dei fan tende ad apprezzare maggiormente le prime due stagioni, da cui la terza si distacca sia per la prevalenza della trama orizzontale sia per il sapore e l’atmosfera, quasi a voler far combaciare l’estetica della stagione con quella della fiction che viene realizzata al suo interno.
Ancora più diffusa è l’opinione di considerare inferiore la terza stagione, “tranne il finale”, riconosciuto unanimemente come uno dei vertici della serie ed una delle parti più divertenti. Ciò non è casuale: il finale ritorna alle atmosfere e agli stilemi delle prime stagioni, richiamando addirittura alcuni attori fin lì rimasti assenti, proprio nel momento in cui si decide di abbracciare pienamente il lavorare male e l’assenza di qualità e si ripropone la mediocrità come unica soluzione possibile. La narrazione stessa di Boris ci porta a considerare con maggior affetto e a gradire di più le parti peggiori, a presentare i personaggi negativi come giustificati facendoci empatizzare con loro, e ci conforta nel presentare come lieto fine la ricomposizione di un ordine storto ed ingiusto in origine.
Una dimostrazione evidente di questo avviene nel personaggio di Lorenzo (Carlo De Ruggieri): formalmente occupato nel ruolo di stagista e ufficiosamente impiegato nel ruolo di schiavo, Lorenzo viene nel migliore dei casi trascurato, nel peggiore insultato e malmenato, è considerato come la figura infima della troupe e subisce le più svariate umiliazioni da parte di tutti. Lorenzo trova un piccolo riscatto a partire dal finale della seconda stagione: nel momento in cui un suo lontano zio viene eletto senatore – senza peraltro che lo stesso Lorenzo abbia nemmeno votato per lui o sostenuto il suo partito – il giovane diviene improvvisamente garantito e tutelato dalla protezione del parente onorevole; viene promosso ad operatore di macchina, assume progressivamente la direzione della fotografia di Medical Dimension e può finalmente pretendere che il suo precedente capo, il capo elettricista Biascica (Paolo Calabresi), lo tratti con rispetto umano.
Questa consolazione – peraltro amara, visto che i torti non vengono raddrizzati per spirito di giustizia o compassione, ma solo in virtù di un’ingiustizia di rango superiore – trova fine con il ritorno a Gli Occhi del Cuore 3: la riproposizione del vecchio sistema toglie a Lorenzo tutto quello che si era faticosamente conquistato, lo rigetta nella sua antica condizione di schiavo e lo restituisce alle dipendenze di Biascica, che festeggia la cosa malmenandolo giustamente. È la narrazione stessa a presentarci le percosse come giuste, facendoci ridere a crepapelle di ciò che dovrebbe farci piangere e indignare e presentando un esito disperato in cui il tentativo di trovare una condizione migliore viene frustrato come il lieto fine in cui l’ordine viene ristabilito.
I personaggi di Boris possono essere divisi in linea di massima in due categorie. Alla prima appartengono personaggi più semplici e meno stratificati, definiti principalmente da una caratteristica che dimostra la loro inadeguatezza: ne sono un esempio i tre sceneggiatori de Gli Occhi del Cuore (Valerio Aprea, Massimo De Lorenzo e Andrea Sartoretti), cialtroni plagiatori volti a scrivere il prodotto peggiore nel minor tempo e con la minor fatica, l’attore Stanis LaRochelle (Pietro Sermonti), vanesio ed incapace ma convinto di essere il miglior interprete del mondo, e la grezza Itala (la compianta Roberta Fiorentini), la segretaria di produzione ignorante ed ubriacona.
Di contro, altri personaggi si scoprono più stratificati, e sono spesso definiti da una tensione tragica tra un’aspirazione e la rassegnazione, tra i desideri e la realtà: Diego Lopez (Antonio Catania), il delegato di produzione che tiranneggia sulla troupe e di converso viene tiranneggiato dai suoi superiori nella Rete perché venga realizzato un prodotto conforme ai loro valori, il direttore della fotografia Duccio Patanè (Ninni Bruschetta), artista un tempo capace ma ormai rassegnato allo schifo e cocainomane, e soprattutto René Ferretti (Francesco Pannofino), regista della fiction e costantemente teso tra la voglia di “portare a casa la giornata” accontentandosi, la consapevolezza della miseria intellettuale e artistica che lo circonda e l’occasionale tentativo di riscatto, frustrato dalla sconfitta.
Ancorché l’intera vicenda venga narrata dal punto di vista di Alessandro (Alessandro Tiberi), stagista assunto al principio della serie, e come tale narratore ed ideale doppio dello spettatore, proprio René è il vero protagonista di Boris, e la figura che più illustra la profonda tragicità del suo messaggio. René è consapevole di poter e sapere fare di meglio, ma è costretto dalla necessità a prestarsi ad operazioni discutibili e qualitativamente immonde per sbarcare il lunario. Il realizzare le scene “a cazzo di cane”, suo motto, è il modo per non farsi trascinare nel gorgo dalla consapevolezza di star sprecando il proprio talento e i propri mezzi. Una scelta consapevole, perché a differenza di altri che lo circondano René potrebbe raggiungere di meglio: dal cortometraggio La formica rossa, piccola perla di ricerca artistica[2], al tentativo di Medical Dimension, René dimostra più volte di essere un bravo regista costretto a scegliere di lavorare male, perché il sistema intorno a lui glielo impone.
Costrizioni di tipo economico – come per il maestro Orlando Serpentieri (Roberto Herlitzka) che passa dal Macbeth in teatro alla comparsa ne Gli Occhi del Cuore perché “tra i due c’è una cosa chiamata mutuo[3]” – o vincoli di tipo esterno – quando il risultato elettorale costringe a riscrivere alcuni ruoli per non scontentare i partiti politici in ascesa – sono la causa di un continuo compromesso al ribasso, che culmina nell’esplosivo finale in cui un René scatenato proclama nel giubilo generale che “la qualità ci ha rotto il cazzo! (…) Viva la merda!”[4].
Sembra difficile credere che una storia così cupa e nichilista, in cui nulla di valore può sopravvivere alle pressioni di un sistema volto a perpetuare il proprio dominio, sia presentata attraverso una commedia sfacciata ed una scrittura esilarante, tanto leggera nelle sue parole quanto drammatica nei suoi contenuti. Eppure la chiave è rendersi conto che la risata non è giustapposta al dramma, ma la sua naturale conseguenza. Il mondo di Boris è un mondo privo di senso e di giustizia, dove l’assistente alla regia Arianna (Caterina Guzzanti), l’unica persona in grado di assicurare che gli altri facciano il loro lavoro e di portare a casa la giornata, può affermare senza tema di smentita che “la ristorazione è l’unica cosa seria rimasta in questo paese”[5]. Una società così profondamente corrotta e demente non può essere affrontata se non tramite l’esorcismo del riso.
Nell’opera Pagliacci di Ruggero Leoncavallo, capolavoro del Verismo italiano, il protagonista Canio si dispera di fronte alla prospettiva che la donna da lui gelosamente amata possa tradirlo, e si rende dolorosamente conto del fatto che il suo dolore lascia indifferente il mondo, troppo preso dal suo ruolo di Pagliaccio. Nell’aria più celebre dell’opera, Vesti la giubba, si arriva all’amara conclusione che l’unico modo per sopravvivere alla disperazione è ridere delle proprie miserie, perché alla società non importa altro:
(…)
la gente paga, e rider vuole qua;
e se Arlecchin t’invola Colombina,
ridi, Pagliaccio, e ognun t’applaudirà!
Tramuta in lazzi lo sforzo ed il pianto,
in una smorfia il singhiozzo ed il dolor.
Ridi, Pagliaccio, sul tuo amore infranto!
Ridi del duol che t’avvelena il cor!
Alla fine, anche Boris ci invia lo stesso messaggio, e lo fa nascondendosi dietro la propria scrittura. Portando alla luce in maniera innegabile una miseria insopportabile e chiamandoci a correi, la risata rimane come unico strumento per sopportare il continuo tradimento dei propri ideali e dei sogni abbandonati.