Mentre guardavo la scena della grande battaglia finale dell’ultima fatica di Steven Spielberg, sprofondato nella poltroncina di un multisala di periferia, c’era una sola parola che lampeggiava nella mia mente: definitivo.
“Definitivo” è certamente un aggettivo molto inflazionato: spesso la si usa come iperbole per indicare qualcosa di genericamente “grandioso” o semplicemente “molto figo”. Ready Player One, invece, è definitivo in senso più letterale. Nel senso, cioè, che questo film si pone come picco di una tendenza ben precisa, il punto più alto di una certa ricerca estetica e che, proprio per il fatto di rappresentare il non plus ultra di questa, si trasforma inevitabilmente in punto fermo, perché giunti in cima non si può fare altro che scendere. Ma procediamo con ordine.
La storia è ambientata nell’anno 2045: inquinamento e politiche ambientali scellerate hanno ridotto la Terra (o quanto meno gli Stati Uniti, che alla fine è l’unica porzione di Terra che conta) ad un ammasso di baracche in lamiera o, peggio ancora, di gigantesche aziende senz’anima. Unico sollazzo per l’umanità è un videogioco chiamato OASIS, in cui si può essere e fare ciò che si vuole a patto di essere gamer abbastanza abili. Molte persone finiscono per vivere la loro intera esistenza su OASIS, mentre la loro vita nel mondo reale va a rotoli. Il protagonista della vicenda è un ragazzo che, assieme all’immancabile gruppo di amici incontrati strada facendo, dovrà superare una serie di prove escogitate dal creatore di questo mondo virtuale per completare il gioco e, ovviamente, salvare il mondo.
Ora, è palese che la trama non sia esattamente il punto forte di questa pellicola, e tuttavia anche essa è funzionale al nostro discorso. Benché la struttura della storia rispecchi quella più classica dei libri/film young adult, si può notare fin da subito consapevolezza ed autoironia non comuni ai prodotti culturali per ragazzi. Lo vediamo ad esempio nell’avatar del creatore del gioco che ha la funzione di guidare i giocatori nella loro ricerca e che, all’interno di OASIS, assume le sembianze del tipico “vecchio saggio” del viaggio dell’eroe: un po’ Gandalf, un po’ Albus Silente, un po’ Merlino. Numerosi altri elementi concorrono a definire Ready Player One come un tipico esempio di cinema postmoderno, soprattutto l’attenzione per la cultura pop e l’incredibile quantità di citazioni, elementi (questi sì, insieme agli effetti speciali) su cui Spielberg ed Ernest Cline, co-sceneggiatore nonché scrittore del libro da cui l’adattamento cinematografico è tratto, hanno concentrato la maggior parte dei loro sforzi.
Riferimenti a quella cultura che il film stesso definisce “nerd” sono rintracciabili ovunque: nelle musiche, nelle scelte registiche, nei dialoghi e nei costumi di scena e riguardano ogni medium possibile: libri, cartoni animati, classici di Hollywood, pellicole di serie B e, come è naturale, videogiochi. Gli utenti di OASIS per muoversi all’interno del videogioco si servono di avatar e, proprio come avviene nel nostro mondo, anche loro spesso scelgono di vestire i panni di personaggi dei fumetti Marvel e DC, di manga e videogiochi celebri oggi e ormai, nel futuro prossimo della storia, considerati vintage. Riconosciamo volti noti di Mortal Kombat, Halo, Overwatch… Ma il citazionismo sfrenato non si ferma qua. Tra i mostri che hanno il compito di fermare i nostri eroi troviamo dinosauri giganti e King Kong in persona, inoltre una scena intera è ambientata nell’Overlook Hotel di Shining, per quanto alcune sequenze con gli zombie ricordino più Resident Evil.
Abbiamo detto che una serie di elementi presenti in Ready Player One ne fanno un chiaro esempio di cinema postmoderno. Ok ma, cos’è il postmoderno? La domanda è più complessa di quanto potrebbe sembrare, dato che lo stesso termine è stato utilizzato da autori diversi con significati differenti e in ambiti del sapere distanti tra loro: architettura, letteratura, musica, arti visive, filosofia… Per quanto numerosi autori abbiano riconosciuto loro stessi o alcuni loro colleghi come esponenti del postmodernismo, questa “corrente” (ma alcuni critici non sarebbero d’accordo nemmeno sull’utilizzo di questo termine) non si è mai cristallizzata in un movimento unitario.
La questione è particolarmente complessa in ambito letterario: esponenti del postmodernismo sono Jorge Luis Borges e Samuel Beckett (però molti critici li definirebbero piuttosto dei precursori), in Italia abbiamo Umberto Eco e Italo Calvino (eppure alcuni italianisti direbbero che il postmoderno nel nostro Paese semplicemente non è mai esistito)… Per fortuna nel cinema la questione è più semplice in quanto disponiamo di un regista universalmente riconosciuto come postmoderno e che quindi può servirci da metro di paragone: Quentin Tarantino.
Pensare alla cinematografia di Tarantino è il modo migliore per capire cosa significhi fare cinema postmoderno: tutti i film di questo regista sono caratterizzati da una forte componente autoironica e metanarrativa, tendono al pastiche, al collage, alla fusione di generi differenti, alla cultura pop, alla transmedialità (pensiamo agli inserti “anime” all’interno di Kill Bill) e, naturalmente, sono infarciti di citazioni. Il postmodernismo viene spesso definito non tanto come un movimento o una corrente, quanto come un particolare atteggiamento nei confronti della realtà. Si rifiuta l’esistenza di una verità profonda e dell’io (che invece era l’oggetto ultimo della ricerca artistica del modernismo di James Joyce e Virginia Woolf), e si abbracciano invece l’insensatezza del mondo e gli infiniti modi per raccontarla.
In questo senso, Ready Player One è quanto di più postmoderno la mente umana abbia mai concepito. La scena della battaglia finale a cui accennavo prima è la summa di questo tipo di cinema ipercitazionista che abbiamo visto affermarsi con forza negli ultimi anni: in un’ambientazione che ricorda le lande ghiacciate del pianeta Hoth di Star Wars, con sullo sfondo una fortezza nera che non può che farci venire in mente Barad-dûr, la torre di Sauron ne Il signore degli anelli, si affrontano Gundam e Mechagodzilla, mentre il Gigante di ferro dell’omonimo film diretto da Brad Bird combatte al fianco di ninja e samurai. Tutt’attorno volano raggi laser e incantesimi lanciati da due eserciti di personaggi dei più vari fumetti, cartoni animati e videogiochi.
Definitivo.
Cline e Spielberg hanno spinto al massimo il gioco del rebus postmoderno che sfida il fruitore a rintracciare tutti i riferimenti alla cultura pop, quegli indizi nascosti e fini a se stessi che in gergo videoludico si chiamano Easter egg. E non è un caso che l’oggetto della quest a cui i personaggi di Ready Player One prendono parte sia proprio un uovo luminoso. Halliday, il creatore di OASIS, aveva creato quel mondo proprio con lo scopo di riempirlo di tutte le cose “nerd” che amava, e infatti il film è costruito come una citazione continua, senza riserve, tanto che sarebbe difficile immaginare una pellicola che possa contenerne di più.
Il film di Spielberg incanala bene le tendenze presenti nei film e serie TV degli ultimi anni, ormai ben evidenti anche ai più sprovveduti. La nostalgia per l’infanzia, il ritorno agli anni ’80, alle sue luci al neon, ai suoi filtri patinati, il gusto per il remake. L’incredibile successo di Stranger Things è solo la punta di un iceberg che raggiunge abissi ben più profondi e che influenza anche il mondo dell’arte contemporanea, quello della musica elettronica, fino a dare vita a nuove estetiche, come la ormai già antiquata Vaporwave o quella del cosiddetto weird Facebook.
E qui arriviamo al nocciolo della questione. Se persino Spielberg inizia ad autocitarsi e a giocare con l’immagine di un’infanzia che lui stesso ha contribuito a costruire (pensiamo a quanto di Spielberg c’è, ad esempio, nella prima stagione di Stranger Things) e inoltre lo fa con la sua regia impeccabile, se persino il fondatore del nuovo cinema classico hollywoodiano appare ormai stanco di riproporre per l’ennesima volta il più classico modello di storia per un blockbuster, quello del ragazzino che salva il mondo con l’aiuto dei suoi amici, allora forse significa che questo filone si è ormai esaurito. E allora cosa verrà dopo? Quali sorprese ci riserverà il post-postmodernismo?
Personalmente, perché qui si entra nel campo delle speculazioni, l’opzione che mi sembra più probabile è un rigetto del fantastico e dell’autocelebrazione per un ritorno ad un tipo di arte più legata alla realtà, alla politica, ai grandi temi sociali. E questo è anche lo spiraglio che pare dischiudersi appena appena alla fine del film: ora che il mondo virtuale è salvo, rimane un pianeta distrutto da sistemare. Ma forse questa è più un augurio personale che una previsione per il futuro prossimo.