La peste nel medioevo: affrontare l’imponderabile

Peste nel medioevo: Anonimo-scuola inglese-la morte conduce il suo esercito

Circa millecinquecento anni dopo la celebre peste di Atene, un cronista di origini francesi dall’animo inquieto ci racconta la dissoluzione e la rovina del suo mondo, ormai destinato ad essere soppresso dai peccati dell’uomo. Il suo nome è Rodolfo il Glabro.

Nei suoi Historiarum libri quinque, scritti intorno alla metà dell’XI secolo probabilmente all’Abbazia di Cluny, narra le vicende del popolo franco dal 900 al 1044, quindi descrivendo eventi a lui contemporanei che interpreta alla luce di aneddoti che vengono interpretati come segni premonitori.

Nel nostro autore tutto diviene simbolo: calamità, carestie ed epidemie. Tutti questi eventi sono trasfigurati nell’ottica del cristiano: le eclissi sono mancanza di luce divina, indizi all’avvento delle tenebre infernali; le carestie e le malattie, punizioni propinate da Dio per redimere gli uomini dai peccati. Per questo Rodolfo il Glabro non è interessante in quanto storico, ma per capire come gli uomini del medioevo si rapportassero ad un evento come un’epidemia.

Siamo infatti in un’epoca che si sente lontana dai fasti dell’impero carolingio e nello stesso tempo è percorsa da un afflato di rinnovamento. Lo stesso Rodolfo il Glabro ci racconta come proprio in quegli anni l’Europa inizia a rivestirsi di un candido manto di chiese e di come ci sia un rinnovamento nella società. Questo rinnovamento però viene interpretato dall’intellettualità dell’epoca in maniera contraddittoria: da un lato si ha la sensazione di una rinascenza, ma dall’altro ogni evento negativo mostra la paura di un’imminente fine dell’umanità e di una irrimediabile corruzione dell’uomo.

Al contrario di quanto crederanno gli storici dell’Ottocento la credenza che la popolazione europea fosse terrorizzata per la fine del mondo nell’anno Mille è falsa, ma comunque quello era un mondo che credeva fortemente alle Scritture, e le Scritture, nell’Apocalisse ci dicono esattamente come sarebbe finito il mondo: l’intellettualità dell’epoca era quindi estremamente attenta ad ogni indizio che ne rivelasse l’avvento.

Trionfo della morte, Palazzo Abatellis, Palermo
Trionfo della morte, Palazzo Abatellis, Palermo

Un esempio di questo lo possiamo vedere, qualche secolo dopo, con una delle figure più particolari e più affascinanti dell’epoca medievale e cioè Federico II, un sovrano talmente diverso dagli altri, indipendente e anticonformista che più di un intellettuale pensò che potesse davvero essere l’anticristo. Addirittura, quando nel 1250 morì, Fra Salimbene da Parma, una delle nostre maggiori fonti dell’epoca, confessò di esserci rimasto molto male: era così convinto che il mondo sarebbe finito che il fatto di essere stato smentito era peggio della fine del mondo stessa.

Tuttavia la pestilenza più importante e anche conosciuta di epoca medievale è la peste nera che colpì l’Europa a metà del Trecento. La peste fu così ampia e generalizzata che morì un terzo della popolazione europea e per questo è considerata uno spartiacque nella storia medievale. Non solo perché fu un episodio catastrofico, ma anche perché in realtà portò a un rinnovamento della società europea come è stato evidenziato da alcuni anni. Ciò non toglie che fu un evento traumatico per la generazione che lo visse.

Tuttavia in un autore come il Boccaccio vediamo una presa di distanza: a differenza di altri autori, soprattutto antichi, che hanno raccontato la peste con dovizia di particolari, ponendo l’accento sulla sofferenza, Boccaccio è più interessato alle relazioni, ai legami che la peste arriva a spezzare raccontando di come i padri abbandonino i figli e i figli  i padri e di come «alcuni erano di più crudel sentimento […] dicendo niuna altra medicina essere contro alle pestilenze migliore né così buona come il fuggir loro davanti»[1].

È ciò che in effetti fanno i protagonisti dell’opera di Boccaccio: si ritirano in una villa e raccontano storie, dimenticandosi e facendoci dimenticare della peste che colpisce Firenze. Nonostante Boccaccio condanni l’idea di fuggire dinanzi alle difficoltà, in realtà il fatto stesso che usi la peste come espediente letterario mostra un modo di pensare decisamente diverso rispetto agli intellettuali dei secoli precedenti: che la peste sia o meno una punizione divina importa meno; quello che è veramente importante è la capacità di sottrarsene.

Boccaccio nella sua opera ci racconta una società medievale viva, ricca di aneddoti, anticipando un certo gusto favolistico che ritroveremo nelle corti cinquecentesche e nell’opera di Giambattista Basile. In questo non è diverso da un Fra Salimbene che pur essendo un religioso non ha paura di raccontare l’alto e il basso, il pudico e l’impudico, il sacrilego. La differenza però sta nel fatto che Boccaccio fa parlare i  personaggi e a parte che nella cornice rinuncia a dare la propria visione degli avvenimenti e soprattutto rinuncia a inquadrarli in una cornice ideologica, cosa che invece per Fra Salimbene è imprescindibile.

L’umanità descritta da Boccaccio risulta più vicina a noi proprio perché tende a fuggire la morte, a dimenticarsene, mentre l’uomo medievale credente si muove in un immaginario molto più chiaro e definito rispetto al nostro. Per l’ideologia medievale cristiana la realtà è fortemente polarizzata: esiste il Bene ed esiste il Male, l’Aldilà e l’Al di qua. Queste coordinate permettono di affrontare l’imponderabile.

Arnold Bocklin, La peste, 1898
Arnold Bocklin, La peste, 1898

Infatti per molti secoli, prima dello sviluppo delle città e dei commerci, aggrapparsi a un’idea di mondo così forte e definita era l’unico antidoto alla carestia, alle malattie. La stessa medicina medievale, che è stata la base per lo sviluppo della scienza moderna, era una medicina pratica, funzionale alla cura dei feriti di guerra, mentre invece la medicina araba, pur essendo in larga parte inefficace, ed erronea rispetto ai parametri odierni, tendeva a spiegare in maniera più onnicomprensiva le malattie e la morte.

Ciò che permetteva dunque alla società medievale di sopravvivere e affrontare le calamità non era tanto legato alla conoscenza tecnica, quanto piuttosto alla capacità di infondere in larghi strati della società la convinzione di vivere in un mondo regolato, ordinato, in cui ognuno ha il proprio compito: una consapevolezza che non dobbiamo immaginare come incrollabile e non soggetta a oscillazioni, come si vede in Boccaccio, ma che, al contrario, in una società in rapida trasformazione come quella basso-medievale diviene più sfumata.

Per certi versi la situazione odierna è quasi all’opposto: abbiamo conoscenze tecniche incomparabili anche solo a quelle di un secolo fa: lo abbiamo visto con a scorsa pandemia, in cui la medicina da uno stadio di pressoché totale impreparazione è riuscita in pochi mesi ad approntare cure e vaccini efficaci. Abbiamo anche una capacità sociale tale da permettere quarantene e chiusure su scala molto più vasta di quanto fosse immaginabile fino a quel momento. È mancato, però, un insieme di strutture ideologiche altrettanto forte, in grado di comprendere la morte all’interno del proprio orizzonte esistenziale, come avviene ai personaggi di Boccaccio.

La malattia e la morte, infatti, non sono più viste come parte dell’esistenza, ma sono collocate al di fuori di essa. Il sogno dell’essere umano, in special modo occidentale, è vivere un’eterna primavera, senza sofferenze o ostacoli, e si scontra con una realtà del tutto differente, sia perché non tutti hanno accesso alle cure più recenti ed efficaci, sia perché queste sono comunque realtà ineludibili. La nostra realtà è dunque schizofrenicamente scissa tra il mondo ideale prospettatoci dal progresso tecnologico, e una realtà ben più dura e aspra. E questo finisce per porci in una situazione di ansia e paura costante.

L’approccio prospettato dall’uomo medievale oggi suscita in noi un forte dissenso, se non rifiuto: sappiamo che le epidemie non sono una punizione divina, e che l’uomo non è inscritto in un disegno al quale non può sfuggire. Noi, però, non abbiamo un’altra visione della realtà altrettanto chiara e limpida di quella dell’uomo medievale. Per quanto cerchiamo di allontanare la malattia e la morte dalle nostre esistenze, queste restano un interrogativo, una presenza ingombrante con cui ancora dobbiamo misurarci.

 


In copertina: Anonimo, Scuola inglese, La morte conduce il suo esercito, XIX secolo, olio su tela.

Redazione: Salvatore Ciaccio
Salvatore Ciaccio

Nato a Sciacca in provincia di Agrigento nel 1993, ho frequentato il Liceo Classico nella mia città natale per poi proseguire gli studi a Pavia, dove mi sono laureato in Lettere Moderne con una tesi dedicata all'architettura normanna in Sicilia.