La rappresentazione del mondo come tale è opera dell’uomo;
egli lo descrive dal suo punto di vista,
che confonde con la verità assolutaSimone de Beauvoir
Premessa
Giugno di quest’anno infausto. In un gruppo di scrittori su Facebook qualcuno chiede «Nei vostri libri inserite personaggi LGBTQIA*?» Pur con le dovute eccezioni la maggioranza si focalizza sulla funzionalità dell’inserimento. Niente di insolito: spesso il personaggio queer, così come ogni rappresentante di una categoria marginalizzata, viene inserito se serve.
Questo è un filino problematico, e questo articolo vuole spiegarti perché.
Ti premetto già un po’ di cose. Probabilmente questo tema è già stato affrontato da altri, e meglio di me: se vuoi, condividi pure nei commenti il materiale che conosci. È un argomento complesso: questo vuol dire sia che, avendo scritto un articolo e non un saggio, non sarà un testo esaustivo, sia che avrò bisogno di spazio. Per l’esattezza 2527 parole. Per questo mi sono impegnato a rendere il tutto colloquiale, leggero, come se fossimo a berci un frappé assieme: ci sei tu, e c’è il sottoscritto che ti parla infervorato di qualcosa a cui tiene. Magari prendine due, di frappé.
Infine: ho scelto il maschile neutro, pur non ritenendolo neutro, per facilitare la lettura. Questo articolo è uno tra le centinaia che si occupano delle problematiche legate al genere grammaticale: i punti di contatto tra le due tematiche sono molti.
Un gioco
Partiamo con un gioco. È una prova che ho fatto anche sui miei social: non ha alcun valore statistico, ma ci può aiutare ad entrare meglio nel tema. Leggi la frase qui sotto e annota ciò che hai immaginato, il modo in cui hai riempito gli spazi vuoti dell’informazione. Non pensare, non ti sto chiedendo di essere originale, ci interessa riflettere sulla routine mentale. Pronto?
Lasciò cadere la biro sul quaderno e, incrociato il suo sguardo, le sorrise
La maggior parte dei contatti, e probabilmente anche tu, hanno immaginato un uomo, bianco, senza disabilità, non povero, probabilmente di età adulta. Spesso esplicitamente eterosessuale: quel le, la destinataria del sorriso, ha fatto pensare a un interesse romantico, esistente o sperato che sia.
Il PZ
Il maschio bianco cisetero, possibilmente di classe medio-alta e fisicamente e mentalmente tipico, è il punto zero della narrazione, quello che definirò in modo arbitrario il Personaggio Zero (così come la relazione romantica è il rapporto zero, ma magari ne parliamo un’altra volta, che ne dici?).
Perché lo definisco Personaggio Zero?
Primo: perché se non abbiamo informazioni aggiuntive nel testo, daremo per assodato che si stia parlando di un bianco cisetero.
Secondo: perché gli altri personaggi sono definiti per opposizione. Non specifichi se Matteo è un bianco etero, ma evidenzi se è gay, coreano, se ha un DOC. Scrivi “è di colore”, come se ci fosse un colore assoluto, giusto, e poi tutti gli altri. Scrivi “è diverso”. Se è un ragazzo cis non lo specifichi, se è non binario non ne parli perché documentarsi è difficile, ciaone.
Ti fermo subito: ora starai pensando “«Eh, ma la grammatica rende Personaggio Zero anche una donna e tu te la prendi coi maschi bianchi cisetero di nuovo, che palle questa sinistra fucsia!». Fidati di me: tra poco ti mostrerò che non è così.
Comunque, il secondo punto è davvero problematico, amico mio. Le arti rispecchiano il mondo, e un’arte che definisce l’esistenza di diverse soggettività solo in contrapposizione a un’altra rappresenta un mondo che ha come assunto esplicito che quella soggettività sia il centro dell’universo, il punto di riferimento per eccellenza, la prospettiva zero (e visto che mi piacciono sia Prospettiva Zero che Personaggio Zero, da ora parlerò di PZ). E, ti assicuro, sentirsi definiti in opposizione a qualcun altro non è edificante.
I non PZ
Guardiamo ora come vengono rappresentati tutti i personaggi che non sono il PZ. Perché veniamo più rappresentati di quanto non fosse anche solo dieci anni fa. Alcuni distributori, come Netflix, ne hanno fatto una sorta di marchio di riconoscimento: personaggi non etero, non bianchi, non neurotipici sono più presenti (e non tutti apprezzano).
Il problema è il come.
Ti chiedo tutta la tua attenzione per i prossimi due punti, perché sono fondamentali. Poi partirò con degli esempi che faciliteranno la comprensione (spero), e a quel punto saprai che staremo per arrivare a una conclusione, potrai tirare un sospiro di sollievo e maledirmi. Ma ora seguimi, ok?
C’è un termine, tokenism, che ha molte definizioni ma la mia personale è “Se metto un paio di categorie marginalizzate in questo film/serie/libro, un premio me lo piglio di sicuro”.
Faccio tokenism quando prendo una categoria marginalizzata e la caccio in una narrazione senza rappresentarne le peculiarità, o riducendole a una pennellata di colore. Un esempio è quello del personaggio interpretato da Janelle Monáe nella seconda stagione di Homecoming (piccolo spoiler non centrale nella trama): Alex è una donna nera lesbica, fidanzata. Ma in tutta la trama questi due elementi sono così superficiali che se sostituissimo lei e la sua compagna con una coppia etero bianca non sarebbe cambiato assolutamente nulla. Ecco il tokenism. (Per la cronaca: sono cose che fanno anche autori di minoranze marginalizzate, non ti sentire troppo in colpa. Ho letto romanzi gay di autori gay dove l’essere gay è definito solo e soltanto da dove il personaggio infila il pisello).
Il secondo punto ci riporta all’inizio dell’articolo e al concetto di funzionalità. Inserisco un personaggio LGBTQIA*, nero, disabile etc se è funzionale. Cosa lo rende, funzionale? Uno dei commenti al post da cui tutto è partito era all’incirca: «Se il mio personaggio deve ammazzare bestie, non faccio un gay che scappa davanti ai mostri». A parte tesoro che abbiamo fatto e facciamo lotte che manco ti sogni (e che wrestler come Shayna Baszler o Darren Young avrebbero di che ridire).
Se il tokenism nasce dalla voglia di sembrare alleati a costo zero, la funzionalità riduce le identità di chi non è maschio bianco cisetero a tropi, macchiette funzionali per la trama o per il protagonista (rasentando il razzismo, l’omofobia, la misoginia, l’abilismo senza nemmeno accorgersene). Sono personaggi con la tridimensionalità di un filo di seta, e questo problema riguarda anche i personaggi femminili (te l’avevo detto prima, di fidarti di me).
Ecco quindi la madre/fidanzata/sorella che muore per far muovere il culo al protagonista, o la dicotomia femme fatale/angelo del focolare; l’amico gay che entra in scena solo per dare consigli sulla moda o per morire di AIDS; la ragazza trans che o si prostituisce o muore malamente (sempre per colpa sua, ovviamente); la donna nera forte; il ragazzo disabile con una vita pietosa. Spesso la funzione arriva letteralmente solo per permettere al PZ di capire qualcosa di fondamentale, o per farlo passare per buono.
Esempi
Ora: se tu sei un maschio bianco cisetero potresti sorprenderti, ma esistono vite che sono molto lontane dalla tua. Molto. Praticamente, quelle della maggioranza dei soggetti di questo globo. Visto che prima ho definito in un modo da Bacio Perugina l’arte come specchio del reale, partirò proprio dal quotidiano per farti qualche esempio, e renderti più chiara la problematicità del tokenism e della funzionalità.
Partiamo dal pensiero.
Il pensiero è un elemento centrale in molte storie: il personaggio riflette su quello che gli è accaduto, su ciò che desidera, al seno di Cassandra.
Prendiamo un personaggio femminile. Jennifer Guerra nel suo consigliatissimo Il corpo elettrico ci parla dell’habitual body monitoring, l’attenzione costante di una donna nel monitorare il modo in cui appare. Non è vanità: socialmente lo sguardo maschile costruisce l’idea di femminilità, e così facendo condiziona la donna dalla culla alla tomba. L’abbiamo visto con Giovanna Botteri o la ministra Bellanova: non importano le tue competenze se non rispondi esteticamente all’aspettativa del PZ reale. Vuoi che questo non si rifletta sul pensiero? Guerra porta un sacco di esempi, uno su tutti: esci linda e perfetta ma è rimasto quel ciuffo di peli lì sulla gamba, e ora avrai la certezza che lo noteranno tutti. Un pezzo della testa di una donna è occupato da un piccolo maschio bianco cisetero che la giudica come un piccolo inquisitore.
E capita anche a noi queer, anche al sottoscritto che ti sta smaronando e che dovrebbe avere una certa consapevolezza di queste dinamiche: quando esco di casa una parte di me si chiede se mi insulterai perché sculetto, e cercherò di non farlo. Quelle risate erano perché la mia voce che è salita troppo? È più sicuro tornare a casa a piedi o in bus, stasera che ho messo quel filo di eyeliner?
Anche il tempo di chi non è un maschio bianco cisetero è diverso.
Per una persona non neurotipica ogni giorno è una sorpresa: l’ansia oggi mi permetterà di uscire di casa? In quale modo la depressione manderà a ramengo quella presentazione? Perché Claudio non capisce che non è che non voglio andare alla sua festa di compleanno, ma che il mio autismo può pure essere definito “funzionale”, ma non riuscirei a reggere sessanta persone in una stanza?
Le persone trans spesso raccontano di come la terapia sia una seconda pubertà. E tutte le persone non cisetero affrontano un tempo variabile nel capire perché sono diverse, nell’accettarsi, nel fare coming out e nel pagarne le conseguenze (relazionali, lavorative, sociali). Per accontentare lo sguardo maschile, una donna spende 335 ore di media all’anno per curare il proprio aspetto. Non parliamo poi delle innominabili mestruazioni, che condizionano in media 5 giorni per ciclo mestruale. Per una persona non bianca c’è il tempo burocratico che fagocita intere giornate, ma molte storie raccontano anche dei sacrifici fatti per poter essere a scuola o sul lavoro meglio dei bianchi solo per poter essere trattati con un po’ di rispetto.
E tutti questi aspetti spesso si sovrappongono, si intersezionano.
Queste peculiarità, il tokenism e l’idea delle funzionalità le annullano. Riducono i personaggi nonPZ a degli oggetti. Nel mentre, tanto nel reale quanto nel testo, il PZ va avanti per una strada costruita su misura per lui, in un mondo con regole tagliate attorno alla sua identità mentre gli altri dovranno arrangiarsi, con un costo in termini di salute mentale, studio, carriera, rapporti relazionali che di nuovo tokenism e funzionalità nascondono. Ogni tanto il PZ si ferma, nota un nonPZ e, convinto che la verità sia quella roba che lui sta vivendo, definirà il nonPZ un perdente e le sue richieste figlie del politicamente corretto.
La rappresentazione è fondamentale
Ora, tu che scrivi penserai: «Bona, non ne metto mezza di ‘ste categorie marginalizzate, così sono sicuro che non faccio casini». Ehm.
L’arte non solo è lo specchio del mondo, ma lo crea. Ciò che leggiamo, vediamo, ascoltiamo ci aiuta a comprendere cosa possiamo considerare giusto, e cosa no. Cosa è degno di esistere e cosa no.
Non è che smettendo di scrivere delle minoranze marginalizzate, queste spariscono. Però ne condizioniamo il presente e il futuro.
Il presente, perché senza solidi personaggi nonPZ, le persone nonPZ non avranno modelli a cui rifarsi, non riusciranno a riconoscere che quello che stanno vivendo è valido, vero, giusto. Si sentiranno sole, sbagliate. Costruiranno vite che non appartengono loro perché non avranno un immaginario a cui rifarsi, o sarà un immaginario da cui fuggire. Sono cresciuto negli anni ’90, dove i personaggi gay erano soggetti bullizzati o tizi che vivevano in incognito: io non volevo essere come loro, ma avevo solo quelli come riferimenti.
La biblioteca di paese non aveva testi che parlassero di personaggi gay, o che ne parlassero bene. Internet a casa è arrivato quando avevo già 18 anni. Fa male vedersi ridotti a questo, e ha delle conseguenze. Come fa male quando il personaggio femminile può solo essere “la fidanzata di”. Fa male quando il ragazzo in sedia a rotelle è sempre condannato all’isolamento, la ragazza nera è quella precoce e selvaggia e *l* non binari* serve solo per ridere dell’uso dell’asterisco. Anche se gli esempi di prima si sono concentrati sul costo del non essere PZ, è fondamentale creare narrazioni positive e rappresentative.
La rappresentazione è fondamentale. Chimamanda Ngozi Adichie ne ha parlato magnificamente qui. Non possiamo più difendere una narrazione con una sola prospettiva.
Presentare personaggi nonPz cambia anche il futuro, perché l’utopia non ha confini se non quelli del momento, ed è dovere di chi scrive allargare ogni volta di più quei limiti. Perché non ce ne facciamo niente di Dear White People se poi nei romanzi di fantascienza (e nei fantasy) continuiamo a usare il concetto di razza e l’idea che se uno nasce orco allora per forza è cattivo. E parlo proprio del weird perché spesso ho letto: «Eh, ma è un mondo inventato, ci metto quel che ci voglio». Quei mondi inventati sono comprensibili per i punti di contatto che hanno con la nostra realtà, con le cose che conosciamo, altrimenti diventano un discorso di Fusaro. Le omissioni non sono scelte di stile, ma colpe.
Perché scrivere non è mai un’attività neutra. O confermi lo status quo, o lo metti in discussione. Per questo scrivere è sempre un atto politico, anche quando racconti la storia di come i tuoi genitori si sono innamorati: ogni parola che metterai in quel testo avvallerà o sconfesserà la visione romantica, di classe, dei rapporti di genere, delle identità di genere, sempre. Fingere che non sia così è un lusso solo di chi ha il privilegio di essere un PZ. I nonPZ non possono permetterselo.
NonPZ.
Non.
Arrivo con questo non alla conclusione.
Siamo alla fine, gioisci!
Siamo arrivati qui, assieme, d’accordo o meno che tu sia. Ti ho raccontato perché è importante non definire persone e personaggi per opposizione a un solo modello. Se ti trovi d’accordo con me, questa cosa deve trovare uno spazio anche nella pratica.
Quando scriverai di Carla, una ragazza trans nera che ascolta i Rammstein e adora Nnedi Okorafor, specifica che sta aspettando Luigi, il suo amico cisetero appassionato di lirica e Lego (e che sa piangere: facciamoli piangere questi ometti, che sono i primi ad averne bisogno). Sottolinea quel cisetero come sottolineerai ragazza trans e nera, altrimenti continuerai ad alimentare la disparità.
E ovviamente, combatti funzionalità e tokenism. Per farlo bene dovrai fare ricerche, leggere, sorbirti ore di video su Youtube per capire cosa vuol dire essere una donna sorda, un uomo intersessuale, una ragazza asessuale. Per capire che cosa voglia dire afrodiscendente o AFAB o perché scrivere “un trans” è offensivo: nessuno ha mai detto che scrivere sia facile, ma nessuna responsabilità è semplice, e quale responsabilità è più grande del costruire presente e futuro?
E farà strano, come fa strano ogni cambio di prospettiva. Faceva sicuramente strano pensare “Toh, non è più la Terra il centro del sistema, ma il Sole” e così farà strano dire “Deh, non è più il maschio bianco cisetero il centro dell’universo”. Ruotiamo invece tutti attorno alla possibilità di un’esistenza piena. Perché nessuna persona e nessun personaggio marginalizzato sta chiedendo di diventare il nuovo centro della galassia, ma di vivere secondo la sua maniera e non quella del PZ, di venir chiamato col suo nome e pronome e non con quello che vuole il PZ, di poter prendere decisioni per il suo corpo anche se il PZ non le capisce.
Non essere più un nonPZ, non avere più PZ.
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In copertina: Rich Simmons, Lesbian Kiss